Are Krishna setta eretica ingannevole
Gruppi eretici e dottrine
Are Krishna
E' bene sapere che gli insegnamenti di questo gruppo religioso non sono compatibili con il cristianesimo.
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Nel panorama dei nuovi movimenti religiosi che sempre più numerosi affiancano la fede cattolica, certamente, e ormai da parecchi anni, i gruppi di origine indiana hanno una rilevanza consistente. La gente comune che in via più o meno diretta ne è entrata in contatto sui giornali, attraverso l'esperienza di un conoscente o direttamente alla porta di casa, ne rimane tuttavia per lo più estranea, molto spesso li confonde e non riesce realmente a identificarli né
a valutarli. Così, ad esempio, non di rado gli "Hare Krishna", "quelli con il codino" per intendersi, vengono confusi con gli "Arancioni", che sono invece i seguaci di Osho-Rajneesh, solo perché probabilmente si vedono girare per le strade delle nostre città con abiti di questo colore, per noi stravagante, ma che in tutta l'India è l'abbigliamento tradizionale per i monaci che hanno fatto voto di "rinuncia".
In realtà "Hare Krishna" e "Arancioni" sono due gruppi ben distinti e con differenze sostanziali sia negli insegnamenti che nel modo di concepire e di porsi di fronte alla realtà spirituale. Basti osservare come i primi, ad esempio, che seguono in maniera più o meno ortodossa i caratteri fondamentali dell'induismo sono ben accettati anche nella loro terra d'origine, mentre i secondi invece vengono piuttosto considerati alla stregua di un gruppo "eretico" che ha distorto le basi stesse dell' induismo in nome di una filosofia fuorviante, e queste sono certamente differenze sostanziali tra due gruppi che invece qui da noi si presentano a facile confusione, solo perché provengono da uno stesso ambito e da una stessa terra
d'origine.
Il Guru
Anche il Guru, un termine ormai venuto a far parte del linguaggio comune anche da noi e che letteralmente significa "maestro spirituale", ha ormai assunto, forse a causa delle tristi esperienze di alcuni di questi gruppi, un significato e una valenza certamente negativa e, anziché venire inquadrato in un contesto religioso come quello indiano in cui ha una funzione chiave per ciò che riguarda l'insegnamento spirituale, viene visto piuttosto come colui che si inventa una religione alla ricerca di invasati per alimentare il proprio potere e le proprie entrate economiche. Considerazioni forse legittime, se consideriamo la presenza e lo scalpore eclatante di alcuni di questi maestri indiani sbarcati in Occidente, ma che certamente non rendono giustizia a una tradizione religiosa come quella induista, che senza dubbio mantiene la
sua dignità.
In tutta la tradizione indiana il Guru è infatti la figura necessaria e determinante nel processo di evoluzione spirituale dell'individuo. Egli è il tramite tra i suoi discepoli e la realtà divina, è l'Illuminato, colui che è in diretto contatto con l'Assoluto e le sue verità, in grado di aiutare e indirizzare il discepolo verso la via della realizzazione spirituale. Ed è proprio per questa sua posizione centrale, che lo investe di un autorità e di un potere in un certo qual modo indiscusso, che il Guru rischia di diventare, specialmente qui in Occidente dove le "tentazioni" sono numerose per lo stesso livello di vita della nostra società e per la stessa agiatezza dei possibili discepoli, il motore e l'artefice principale di un movimento che a volte può correre il rischio di intraprendere strade tortuose portando anche all' aberrazione e a un fanatismo catastrofico, sia per l'adepto che ne fa pratica sia per la società che lo contiene.
La forte valenza e l'indiscussa autorità che una tale figura viene ad assumere comporta questi rischi, come d'altra parte ogni situazione di tipo assolutista, ma inevitabilmente la figura del Guru e la sua indiscussa autorità spirituale sono un carattere tipico dell'induismo, che in questa maniera lo investe di responsabilità morali e soprattutto spirituali. Il Guru infatti incarna in questo modo l'ideale che egli stesso propugna e per questo, di conseguenza, viene glorificato e santificato dai suoi discepoli al pari di un'entità divina; verso di lui essi mantengono una forte e infinita riconoscenza in quanto ispiratore e presenza perenne nella propria vita spirituale.
Incontrare un Guru, e poter seguire i suoi insegnamenti diventando suo discepolo, è per la vita spirituale di un indiano una delle sue massime prerogative; tradotto in un linguaggio più comune per noi cristiani significa avere la fortuna di incontrare un santo, ricevere la sua benedizione e usufruire del suo aiuto e della sua protezione spirituale. Così non ci dobbiamo stupire se, ad esempio, un personaggio ormai noto anche in occidente come Sai Baba si definisce "incarnazione divina" (Avatara): anche se si tratta di un'affermazione un po' inconsueta nell' ambito dei contemporanei "maestri" di ascendenza indiana, egli rientra sostanzialmente nella tradizione in cui il Guru è perlomeno il tramite e l' emanazione dell' entità divina.
La tradizione indiana quindi investe il maestro spirituale di un'aura sovrannaturale
che, se da un lato lo santifica, dall' altro può conferirgli dei poteri e un' autorità che, se gestiti inadeguatamente,
possono provocare seri danni. E non stiamo affermando una distinzione tra "uomini santi" e "uomini furbi", che rimane
certo una probabilità consistente, ma tra uomini spiritual mente elevati in grado di seguire con coerenza principi fondamentali della religione e maestri spirituali che, per l'imperfezione insita in tutti gli uomini, possono essere sedotti e travisare, per debolezza umana o per sindrome di potere, insegnamenti ed elementi che regolano la vita spirituale.
Questa possibilità viene certo offerta anche dal tipo di struttura che regola la religione in India: pur esistendo difatti
dei testi sacri riconosciuti dall' intera società e che stanno alla base dell'induismo, non esiste una vera e propria chiesa
che gestisce la vita religiosa, com'è invece ad esempio per il buddhismo o l'islamismo. Esistono piuttosto correnti spirituali
che, pur riferendosi alla letteratura sacra, fanno capo a differenti tradizioni e portano avanti in maniera autonoma e singolare insegnamenti per la realizzazione spirituale dell'uomo.
Esiste quindi una sorte di realtà "incontrollata" per quel che riguarda la vita spirituale e religiosa dell'India, che d'altra
parte rende tipica la situazione indiana. Basti pensare alle varie religioni coesistenti sul suolo indiano, dal buddhismo al jainismo, entrambi originari del luogo, dai musulmani ai parsi, seguaci di Zoroastro, spariti da secoli anche nel loro paese d'origine, agli ebrei e ai cristiani romani e persino ai cristiani di s. Tommaso, l' apostolo che la tradizione vuole sia giunto fino in India a portare il messaggio di Cristo. Tutte religioni che coabitano nello stesso stato e che, pur tra inevitabili conflitti, riescono a convivere. Una capacità di inclusivismo che fa dell'India uno dei paesi più tolleranti dal punto di vista religioso.
I mezzi per la realizzazione spirituale
Nell'induismo le vie tradizionali per la realizzazione spirituale sono fondamentalmente di tre tipi: la "via devozionale" (Bhakti) in cui con la fede e l'amore profondo per Dio si arriva all'unione con l'Essenza Suprema; la "via della conoscenza" (Jnana) in cui attraverso l'esperienza diretta tramite la meditazione si raggiungono differenti stadi della realizzazione spirituale; e la "via dell'azione" (Karma) dove con le opere e il servizio agli altri si entra nel piano di realizzazione divina.
Questi sono in sintesi i tre possibili atteggiamenti che l'individuo ha a disposizione per esprimere il proprio carattere mistico.
Una personalità emotiva ricca del dono della fede, troverà così uno sbocco adeguato alla propria indole nel cammino devozionale della Bhakti; chi invece, frenato dalla razionalità del proprio intelletto, avrà delle difficoltà a lasciarsi andare nel flusso divino della devozione, troverà strumenti più idonei nella pratica mentale della meditazione, con la quale potrà percepire direttamente delle esperienze di tipo spirituale. Chi invece, per carattere o necessità, si trova a trascorrere gran parte del suo tempo a contatto con la gente o sul lavoro potrà applicarsi concretamente nella realtà oggettiva con le proprie doti spirituali per portare un valido contributo alla società.
Questi tre possibili atteggiamenti sono i mezzi che la tradizione indiana, attraverso differenti correnti e scuole filosofiche, ha coltivato per secoli. Essi costituiscono la base di un atteggiamento che influenza tutta la vita spirituale di un indiano e, anche per quei movimenti che fin dal secolo scorso sono sbarcati in Occidente, rivelano di essere parte essenziale della loro fisionomia.
Evidentemente ognuno di questi atteggiamenti, pur prevalendo come carattere spirituale della persona, non esclude gli altri con i quali inevitabilmente finisce con l'interagire e integrarsi.
La Bhakti, ossia la fede e la devozione profonda verso gli insegnanenti e il Guru che li diffonde, rimane un carattere fondamentale anche per quei gruppi apparentemente meno legai alla tradizione indiana e che qui in Occidente si propongono di portare avanti in discorso spirituale in modo "scientifico" come la Meditazione Trascendenale, o "laico" come il movimento di Rajieesh, e che per questo prediligono uno ,strumento come la meditazione per sviuppare un discorso interiore. Tutto questo, se da un lato ci indica influenze tradizionali che permangono anche in gruppi non certo ortodossi, dall'altro dimostra di favorire un atteggiamento che può sicuramente creare delle ambiguità alimentando sentimenti
che, favorendo il "culto della personalità", potrebbero rivelarsi pericolosi.
Devozione (Bhakti-yoga ) e buona azione (Karma-yoga), come certo possiamo notare, sono caratteri spirituali che facilmente possono trovare un parallelo anche nella nostra tradizione religiosa, dove la fede e gli atti d'amore verso il prossimo sono punti cardine per ogni cristiano, ed è evidentemente su questi aspetti basilari che i gruppi neonduisti trovano un linguaggio per innestarsi nella nostra società. Essi da un lato condividono per certi aspetti gli stessi ideali che sono del cristianesimo, dall' altro si propongono di rivitalizzarli e integrarli attraverso una filosofia e in metodo che rinnova in definitiva dalle basi lo stesso discorso religioso (vedi, ad esempio, Yigananda e Sai Baba).
Così la meditazione, che certamente è un cardine della religiosità orientale, viene proposta dalla gran parte di questi
movimenti come il metodo più efficace per un reale sviluppo interiore e si rivela essere, attraverso l'opera di questi gruppi orientali, non solo una "novità spirituale" per un Occidente in crisi di valori, ma anche uno strumento in grado di modificare
il rapporto stesso con a divinità (vedi, ad esempio, Meditazione Trascendentale, Rajneesh, Ananda Marga, Sri Chinmoy...).
Non solo la fede e la realizzazione del proprio credere nel servizio concreto verso gli altri, ma innanzitutto un modo diverso
di "dialogare" con Dio attraverso uno strumento privilegiato di intimità interiore in cui centro e destinatario di ogni attenzione e sforzo spirituale rimane la propria coscienza, o, se preferiamo un linguaggio a noi più comune, la propria anima in cui risiede la divinità.
Secondo la maggior parte dei movimenti indiani presenti in Occidente, dunque, la meditazione è senz' altro il mezzo più validoper un reale sviluppo spirituale dell'individuo. Grazie alla meditazione, essi sostengono, la mente si calma, supera la confusione dei pensieri che la affollano ed entra in contatto con quella realtà profonda in cui risiede l'essenza dell'essere. È attraverso questo tipo di esperienza che l' individuo evolve la propria coscienza fino a realizzare, con la costanza quotidiana della pratica, la meta assoluta in cui avviene l'unione con la divinità.
Maharishi Mahesh Yogi, il guru della Meditazione Trascendentale, sostiene ad esempio che solo realizzando un più elevato stato di coscienza l'uomo può arrivare a comportarsi rettamente in modo naturale e spontaneo e che perciò qualsiasi insegnamento per un retto agire, senza un mezzo adeguato per elevare la coscienza, rimane inefficace. Partendo da tale premessa egli arriva addirittura a criticare le religioni in genere, in quanto deficitarie di una tecnica efficace di meditazione capace di promuovere una significativa evoluzione spirituale nella vita umana. Rajneesh, che è forse il più "laico" dei movimenti indiani in Occidente, pur attingendo per la sua dottrina da fonti diverse (come il buddhismo zen, il tantra, o la psicologia umanistica e la psicanalisi)
e pur condannando ogni morale e religione che opprimono l'individuo pretendendo di gestirlo, indica la meditazione come la base e il punto fondamentale per la vita spirituale dei suoi discepoli. Senza prediligere né discriminare alcuna tecnica di meditazione a favore di altre, egli sostiene questa pratica, qualsiasi appartenenza essa abbia, come necessaria e l'unica in grado di porre la mente in uno stato di consapevolezza indispensabile per il proprio essere. Così anche Sai Baba, che invece predilige la "via devozionale", con la preghiera e la lode a Dio, come mezzo per la realizzazione spirituale.
Per quanto riguarda le religioni ha un atteggiamento positivo, sostenendone la loro validità, ha un approccio favorevole verso la meditazione, che considera essere il metodo più efficace per calmare la mente da tutti i pensieri e i desideri che imprigionano l'anima.
Secondo quanto sostengono i movimenti orientali in genere, che praticano la meditazione, non basta perciò la fede per raggiungere un rapporto reale con Dio, ma è necessario un lavoro "concreto" che permetta di sviluppare quelle doti divine racchiuse nell'uomo in grado di permettere l'esperienza mitica.
Ci troviamo dunque di fronte a un atteggiamento che, pur risultando per molti aspetti innovativo agli occhi di un occidentale della nostra epoca, ha certamente espressioni e radici anche in quel pensiero gnostico che da secoli è rimasto latente alla società occidentale, emergendo come dato reale in quei periodi di maggior crisi sociale (vedi ad esempio all' apogeo dell'impero romano con il neoplatonismo o nel medioevo con la riscoperta dell'alchimia e della Kabbalah) e che certo trova valida ragione di esistere in questi ultimi anni di fine secolo.
La presenza di un Dio immanente, che pervade la realtà e che è essenza interiore dell'essere umano, è una concezione che si sviluppa attraverso l' introspezione e tecniche che permettono l' attuarsi di una fusione con la divinità. La ricerca di un rapporto più personale con lo spirituale e il rincorrere esperienze mistiche attraverso la meditazione. Se dunque da un lato denotano la necessità, per molti occidentali che la praticano, di risposte "concrete" a una bisogno spirituale, dall'altro rischiano di alimentare un narcisismo già presente in maniera massiccia nella nostra società, dove il devoto cerca di fondersi con la divinità diventando un tutt'uno con essa.
Si può insinuare quindi nell'uomo come un seducente, ma pericoloso sentimento di onnipotenza che certo si allontana diametralmente da qualsiasi tradizione religiosa.
Giampietro Masella
(fonte Aleteia.org)
Hanno principi che regolano l’alimentazione e la sessualità ed è proibita la “speculazione mentale” (ragionare)
Hanno principi che regolano l’alimentazione e la sessualità ed è proibita la “speculazione mentale” (ragionare)
Chi non si è imbattuto per strada o sui mezzi di trasporto in qualche giovane con la testa rasata che vendeva incenso, libri di cucina vegetariana o sulla reincarnazione delle anime? Chi sono questi giovani che con tuniche che ricordano l’induismo o il buddismo si avvicinano amichevolmente per offrirci la propria letteratura o ci invitano a una degustazione di cibo vegetariano? Sono noti come Hare Krishna.
Da dove vengono?
L’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna (ISKCON), i cui membri sono noti popolarmente come Hare Krishna, è una setta di origine induista. Anche se insegna che le sue origini risalgono al XVI secolo come ramo dell’induismo, la sua vera origine ha avuto luogo in pieno XX secolo in India, passando poi a New York nel 1965 e da lì al resto del mondo.
Il fondatore è stato l’induista Abhay Charan De, nato a Calcutta nel 1896 e che si è dato il nome spirituale di Sua Divina Grazia A. C. Bhaktivedanta, Swami Prabhupada. Nel 1922 ha trovato quello che sarebbe stato il suo maestro, Swami Bhaksidhanta Sarasvati, che lo ha proclamato “Sanyasa” (santo) e gli ha ordinato di diffondere in tutto il mondo la millenaria scienza spirituale dell’India, nota come Bhakti Yoga.
Il 18 settembre 1965 è arrivato negli Stati Uniti, dove a poco a poco ha iniziato a riunire giovani che lo hanno seguito e ha fondato il suo primo tempio a New York. Da allora la crescita è stata esponenziale, e oggi al mondo ci sono circa 20.000 membri, anche se spesso esagerano i propri numeri.
Prima della morte, Sarasvati ha eletto undici dei suoi discepoli di maggiore anzianità perché trasmettessero alle nuove generazioni il suo percorso spirituale. È morto il 14 novembre 1977 a Mathura, in India, dopo aver scritto più di 70 volumi di traduzioni e commenti dei testi religiosi più importanti dell’India. I suoi scritti sono diventati la guida dottrinale del movimento.
Dottrina: adorazione di Krishna
I membri credono a Krishna, non come avatar di Visnù (come lo intende l’induismo), ma come divinità unica, Verità suprema, Dio onnisciente e onnipotente.
Lo omologano al Dio di qualsiasi fede monoteista, rivolgendosi a lui con il termine “Hare”, che esprime profonda adorazione. Per loro, tutto deriva da Krishna per emanazione e tutto ritorna a lui alla fine di ogni ciclo cosmico.
L’uomo era un essere originariamente spirituale, ma ha perso il suo stato originario, e dopo la sua caduta è rimasto composto da un corpo materiale, un corpo sottile, immateriale, e un corpo spirituale. Il corpo spirituale è l’“io autentico” (atman), che è immortale, una scintilla tratta dal fuoco divino di Dio.
L’aspirazione dell’uomo è raggiungere la “coscienza di Krishna”, rendersi conto della sua natura divina, per non contagiarsi con il mondo apparente (sensoriale) e tornare così alla fusione con Krishna.
Ci sono tre gradi di iniziazione: nel primo si riceve un nuovo nome e si rinuncia alla propria vita passata (famiglia, professione, rapporti sociali, regime alimentare…), nel secondo si acquisiscono e si sviluppano le qualità di guida spirituale e nel terzo si viene portati alla rinuncia totale o consacrazione totale di pensieri, parole e azioni a Krishna, ricevendo il titolo di “Swami”.
La lettura principale è il Baghavad Gita, ma sono normativi i testi e le interpretazioni dottrinarie del fondatore.
Recitare mantra e pensare il meno possibile
La norma più nota è la recita del mantra: “hare krishna, hare krishna, krishna, krishna, hare hare, hare rama, hare rama, rama rama, hare hare”, che bisogna ripetere 1728 volte al giorno. Ci sono poi principi di regolamentazione dell’alimentazione e della sessualità, nonché il divieto di “speculazione mentale” (non ragionare).
Bisogna poi accettare senza riserve tutti i testi dottrinali e le libere interpretazioni del fondatore.
Per evitare il ciclo di reincarnazioni, gli Hare Krishna si dedicano esclusivamente al Signore (Krishna), praticando Bhatki Yoga o servizio devozionale.
Vivono in strutture chiuse sotto la rigida autorità del guru che presiede il tempio. Si alzano alle 3 o alle 4 del mattino e hanno un primo pensiero a favore del loro maestro spirituale. Poi si lavano con acqua fredda e davanti all’altare si dipingono con del gesso le braccia, il petto e la fronte, per poi recitare il mantra. Terminata la meditazione personale onorano il maestro con offerte di fiori e assistono a una formazione sui libri sacri.
Verso le 8 fanno una colazione vegetariana e poi alcuni vanno in strada a vendere libri, altri svolgono lavori di pulizia e i più giovani seguono corsi di formazione.
La sessualità esigerebbe un articolo a parte, visto che i rapporti sessuali sono proibiti nel tempio, a meno che non si tratti di una coppia consacrata, ma l’ideale è la castità assoluta. Alle coppie viene raccomandato di avere rapporti sessuali solo per procreare bambini “con coscienza krishna”.
Lavaggio del cervello?
Per la gran parte degli esperti in materia, gli Hare Krishna sono una setta pericolosa in cui si praticano le più note tecniche di riforma del pensiero, trasformando l’adepto in uno schiavo del gruppo. Enumereremo solo alcune tecniche di manipolazione note a partire dai loro insegnamenti e dalle loro pratiche:
– Isolamento dal mondo esteriore. Insegna Prabhupada: “I rapporti intimi della famiglia non sono altro che una malattia della pelle. Quando una persona si occupa dei doveri della coscienza di Krishna, non ha bisogno di agire in relazione al mondo materiale, o con i doveri nei confronti delle tradizioni familiari…”.
Se l’adepto diventa un fanatico seguace dei suoi insegnamenti, è molto facile capire il progressivo allontanamento dalla famiglia e dagli amici per una consacrazione totale alla setta.
– Indebolimento fisico: Prabhupada interpreta così il testo 17 del Baghavad Gita: “Qualsiasi momento che si disprezza dormendo in modo superfluo viene considerato una grande perdita. Una persona consapevole di Krishna non può sopportare di passare un minuto della sua vita senza occuparsi del servizio del Signore. Il suo sonno si mantiene dunque al minimo. In questo aspetto, il suo ideale è Srila Rupa Gosvani, che è sempre occupato al servizio di Krishna e non poteva dormire più di due ore al giorno, e a volte neanche quelle”.
Se alle poche ore di sonno aggiungiamo l’alimentazione impoverita per via di un vegetarianesimo esagerato, scarso di proteine, e il lavoro quotidiano di proselitismo di strada e le ore dedicate ai rituali, è comprensibile che i giovani adepti si debilitino a poco a poco, diventando più docili a qualsiasi processo di manipolazione psicologica.
– Non pensare: Si proibisce direttamente la “speculazione mentale”. In varie ricerche è stato dimostrato che si stimola dottrinalmente a non pensare, ad avere la mente occupata solo in Krishna e ad obbedire al maestro, senza mettere in discussione niente.
Gli adepti vengono allenati ad occupare la propria mente in modo da inibire la coscienza critica. Si raccomanda ai devoti di “allenare la propria mente perché siano incapaci di ricordare altro che non sia Krishna”.
Gli adepti vengono allenati ad occupare la propria mente in modo da inibire la coscienza critica. Si raccomanda ai devoti di “allenare la propria mente perché siano incapaci di ricordare altro che non sia Krishna”.
Testimonianze
La storia di denunce dagli anni Settanta ai giorni nostri è lunga, anche se alcuni distinguono gruppi più fondamentalisti e fanatici e altri più aperti e tolleranti all’interno degli Hare Krishna. Ecco qualche testimonianza raccolta in vari libri di ricercatori che hanno scritto su questa setta:
“Mi trovavo da quasi due anni in un tempio olandese degli Hare Krishna. Un pomeriggio, il responsabile del tempio rimproverò molto severamente una compagna per una questione di raccolta di denaro. La umiliò fino a farla piangere, e allora disse che noi donne non eravamo degne di servire Krishna. La mia compagna protestò, mentre noi altri devoti che eravano nella sala rimanevamo in silenzio, recitando il mantra. Non ricordo molto bene la scena, ma il responsabile finì dicendo che se si credeva davvero degna di Krishna si doveva buttare dalla finestra. E lei lo fece. Si sfracellò al suolo e si disse alla polizia che la ragazza si era suicidata perché aveva molti problemi personali. Non ho mai capito cosa sia successo, è tutto come una nebulosa. Ci ho messo mesi a reagire, ma alla fine ho lasciato la setta e sono tornata in Spagna” (testimonianza citata da Pepe Rodríguez).
“Il tempio degli Hare Krishna era come un campo di concentramento in cui ci era stato fatto il lavaggio del cervello e ci era stato insegnato che chi non apparteneva al gruppo (il resto della società) era un cane, un cammello, un maiale e un asino, come dice il canto 12 del Srimbad Bhagavatam. In una parola, mi sono reso conto con orrore che avevo vissuto in un mondo pazzo, come quello di Jim Jones, e che avrebbe potuto finire come la Guyana, con un suicidio collettivo” (testimonianza citata da Alfredo Silleta).
“Un pomeriggio arrivò nel mio studio una madre con il figlio 19enne che si era buttato dal balcone e si era rotto un braccio fuggendo da una sede degli Hare Krishna a San Paolo, in Brasile. Essendo stato ricoverato in ospedale, era riuscito a telefonare ai genitori a Montevideo e lo erano andati a prendere. Il ragazzo, con lo sguardo stralunato e il suono dei tamburi nelle orecchie, mi ha raccontato e confermato quello che già sapevo della vita e dei principi dei membri di questa setta” (sacerdote Julio C. Elizaga).
BIBLIOGRAFIA
ELIZAGA, Julio C. (1988). Las sectas y las nuevas religiones a la conquista del Uruguay. Montevideo: La Llave.
GARCÍA HERNANDO, J. (1993). Pluralismo religioso II. Sectas y nuevos movimientos religiosos. Madrid: Atenas.
GUERRA GÓMEZ, M. (2005). Diccionario Enciclopédico de las Sectas. Madrid: BAC.
SILLETTA, A. (2007). Shopping espiritual. Las sectas al desnudo. Buenos Aires: Planeta.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]