Interpretazione Biblica metodi come si interpreta catechesi
Catechesi Quinta Parte
INTERPRETAZIONE BIBLICA - METODI
INTRODUZIONE
L’interpretazione dei testi biblici continua a suscitare ai nostri giorni un vivo interesse provocando vivaci discussioni, che, in questi ultimi anni, hanno anche assunto dimensioni nuove. Data l’importanza fondamentale della Bibbia per la fede cristiana, per la vita della Chiesa e per i rapporti dei cristiani con i fedeli delle altre religioni, la Pontificia Commissione Biblica è stata sollecitata a esprimersi su questo argomento.
A. Problematica attuale
Il problema dell’interpretazione della Bibbia non è un’invenzione moderna, come talvolta si vorrebbe far credere. La Bibbia stessa attesta che la sua interpretazione presenta varie difficoltà. Accanto a testi limpidi contiene passi oscuri. Leggendo certi passi di Geremia, Daniele s’interrogava a lungo sul loro significato (Dn 9, 2). Secondo gli Atti degli Apostoli, un etiope del I secolo si trovava nella stessa situazione a proposito di un passo del libro di Isaia (Is 53 7-8), riconoscendo di aver bisogno di un interprete (At 8, 30-35). La seconda lettera di Pietro dichiara che «nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione» (2Pt 1, 20) e osserva, d’altra parte, che le lettere dell’apostolo Paolo contengono «alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2Pt 3, 16).
A. Problematica attuale
Il problema dell’interpretazione della Bibbia non è un’invenzione moderna, come talvolta si vorrebbe far credere. La Bibbia stessa attesta che la sua interpretazione presenta varie difficoltà. Accanto a testi limpidi contiene passi oscuri. Leggendo certi passi di Geremia, Daniele s’interrogava a lungo sul loro significato (Dn 9, 2). Secondo gli Atti degli Apostoli, un etiope del I secolo si trovava nella stessa situazione a proposito di un passo del libro di Isaia (Is 53 7-8), riconoscendo di aver bisogno di un interprete (At 8, 30-35). La seconda lettera di Pietro dichiara che «nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione» (2Pt 1, 20) e osserva, d’altra parte, che le lettere dell’apostolo Paolo contengono «alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2Pt 3, 16).
Il problema è perciò antico, ma col passar del tempo si è accentuato: venti o trenta secoli separano ormai il lettore dai fatti e detti riferiti nella Bibbia, e questo non manca di sollevare varie difficoltà. D’altra parte, a causa del progresso delle scienze umane, i problemi concernenti l’interpretazione sono divenuti nei tempi moderni più complessi. Sono stati messi a punto metodi scientifici per lo studio di testi dell’antichità. In che misura questi metodi si possono considerare appropriati all’interpretazione della Sacra Scrittura? A questo interrogativo, la prudenza pastorale della Chiesa ha per molto tempo risposto in modo molto reticente, perché spesso i metodi, nonostante i loro elementi positivi, si trovavano legati a opinioni opposte alla fede cristiana.
Ma si è prodotta un’evoluzione positiva, segnata da tutta una serie di documenti pontifici, dall’enciclica Providentissimus di Leone XIII (18 novembre 1893) fino all’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII (30 settembre 1943), ed è stata confermata dalla dichiarazione Sancta Mater Ecclesia (21 aprile 1964) della Pontificia Commissione Biblica e soprattutto dalla Costituzione dogmatica Dei Verbum del concilio Vaticano II (18 novembre 1965). La fecondità di questo atteggiamento costruttivo si è manifestata in una maniera innegabile. Gli studi biblici hanno preso uno slancio notevole nella Chiesa cattolica e il loro valore scientifico è stato sempre più riconosciuto tra gli studiosi e tra i fedeli. Il dialogo ecumenico ne è stato considerevolmente facilitato. L’influenza della Bibbia sulla teologia si è approfondita e ha contribuito al rinnovamento teologico.
È aumentato l’interesse per la Bibbia tra i cattolici, favorendo il progresso della vita cristiana. Tutti quelli che hanno acquisito una seria formazione in questo campo ritengono ormai impossibile il ritorno a uno stadio di interpretazione precritica, che considerano, non senza ragione, nettamente insufficiente. Ma, nel momento stesso in cui il metodo scientifico più diffuso, il metodo “storico-critico”, viene applicato in modo corrente in esegesi, ivi compresa l’esegesi cattolica, questo metodo viene rimesso in discussione: da una parte, nello stesso mondo scientifico, per l’apparizione di altri metodi e approcci, e, dall’altra, per le critiche di molti cristiani che lo giudicano insufficiente dal punto di vista della fede.
Il metodo storico-critico, particolarmente attento, come indica il suo nome, all’evoluzione storica dei testi o delle tradizioni nel corso del tempo-diacronia, si trova attualmente in concorrenza, in certi ambienti, con i metodi che insistono su una comprensione sincronica dei testi, sia che si tratti della loro lingua, della loro composizione, della loro trama narrativa o del loro sforzo di persuasione. D’altro canto, alla preoccupazione che hanno i metodi diacronici di ricostruire il passato si sostituisce in molti una tendenza a interrogare i testi collocandoli nelle prospettive del tempo presente, di ordine filosofico, psicanalitico, sociologico, politico, ecc. Questo pluralismo di metodi e di approcci è apprezzato dagli uni come un indizio di ricchezza, ma ad altri dà l’impressione di una grande confusione.
Reale o apparente che sia, questa confusione offre nuovi argomenti agli avversari dell’esegesi scientifica. Il conflitto delle interpretazioni manifesta, secondo loro, che non c’è alcun vantaggio ne sottoporre i testi biblici alle esigenze dei metodi scientifici, ma che al contrario, vi si perde molto. Essi sottolineano che l’esegesi scientifica ha il risultato di provocare perplessità e dubbi su innumerevoli punti, fino allora pacificamente ammessi e che spinge alcuni esegeti a prendere posizioni contrarie alla fede della Chiesa su questioni di grande importanza, come la concezione verginale di Gesù e i suoi miracoli, e perfino la sua risurrezione e la sua divinità. Anche quando non porta a tali negazioni, l’esegesi scientifica si caratterizza, secondo loro, per la sua sterilità in ciò che concerne il progresso della vita cristiana. Invece di permettere un accesso più facile e più sicuro alle fonti vive della Parola di Dio, fa della Bibbia un libro chiuso, la cui interpretazione sempre problematica richiede una competenza tecnica che ne fa un campo riservato a pochi specialisti.
A costoro alcuni applicano la frase del vangelo: «Avete tolto la chiave della conoscenza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» (Lc 11, 52, cf. Mt 23, 13). Di conseguenza, alla paziente fatica dell’esegesi scientifica si ritiene necessario sostituire approcci più semplici, come l’una o l’al tra delle pratiche di lettura sincronica, ritenuta sufficiente, o addirittura, rinunciando a ogni tipo di studio, si raccomanda una lettura della Bibbia cosiddetta “spirituale”, intendendo con essa una lettura guidata unicamente dall’ispirazione personale soggettiva e destinata a nutrire tale ispirazione. Alcuni cercano nella Bibbia soprattutto il Cristo della loro personale concezione e la soddisfazione della loro religiosità spontanea. Altri pretendono di trovarvi risposte dirette a ogni tipo di domanda, personale o collettiva. Numerose sono le sette che propongono come vera soltanto un’interpretazione, di cui affermano di aver avuto la rivelazione.
Reale o apparente che sia, questa confusione offre nuovi argomenti agli avversari dell’esegesi scientifica. Il conflitto delle interpretazioni manifesta, secondo loro, che non c’è alcun vantaggio ne sottoporre i testi biblici alle esigenze dei metodi scientifici, ma che al contrario, vi si perde molto. Essi sottolineano che l’esegesi scientifica ha il risultato di provocare perplessità e dubbi su innumerevoli punti, fino allora pacificamente ammessi e che spinge alcuni esegeti a prendere posizioni contrarie alla fede della Chiesa su questioni di grande importanza, come la concezione verginale di Gesù e i suoi miracoli, e perfino la sua risurrezione e la sua divinità. Anche quando non porta a tali negazioni, l’esegesi scientifica si caratterizza, secondo loro, per la sua sterilità in ciò che concerne il progresso della vita cristiana. Invece di permettere un accesso più facile e più sicuro alle fonti vive della Parola di Dio, fa della Bibbia un libro chiuso, la cui interpretazione sempre problematica richiede una competenza tecnica che ne fa un campo riservato a pochi specialisti.
A costoro alcuni applicano la frase del vangelo: «Avete tolto la chiave della conoscenza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» (Lc 11, 52, cf. Mt 23, 13). Di conseguenza, alla paziente fatica dell’esegesi scientifica si ritiene necessario sostituire approcci più semplici, come l’una o l’al tra delle pratiche di lettura sincronica, ritenuta sufficiente, o addirittura, rinunciando a ogni tipo di studio, si raccomanda una lettura della Bibbia cosiddetta “spirituale”, intendendo con essa una lettura guidata unicamente dall’ispirazione personale soggettiva e destinata a nutrire tale ispirazione. Alcuni cercano nella Bibbia soprattutto il Cristo della loro personale concezione e la soddisfazione della loro religiosità spontanea. Altri pretendono di trovarvi risposte dirette a ogni tipo di domanda, personale o collettiva. Numerose sono le sette che propongono come vera soltanto un’interpretazione, di cui affermano di aver avuto la rivelazione.
B. Scopo di questo documento
È perciò opportuno considerare seriamente i diversi aspetti della situazione attuale in materia di interpretazione biblica, essere attenti alle critiche, alle proteste e alle aspirazioni che al riguardo vengono espresse, valutare le possibilità aperte dai nuovi metodi e approcci e cercare, infine, di precisare l’orientamento che meglio corrisponde alla missione dell’esegesi nella Chiesa cattolica. Tale è lo scopo di questo documento. La Pontificia Commissione Biblica vuole indicare le strade da percorrere per arrivare a un’interpretazione della Bibbia la più fedele possibile al suo carattere insieme umano e divino. Non si ha qui la pretesa di prendere posizione su tutte le questioni che riguardano la Bibbia, come ad esempio, la teologia dell’ispirazione. Si propone di esaminare quei metodi che possono contribuire efficacemente a valorizzare tutte le ricchezze contenute nei testi biblici, affinché la Parola di Dio possa diventare sempre di più il nutrimento spirituale dei membri del suo popolo, la fonte, per essi, di una vita di fede, di speranza e d’amore, come pure una luce per tutta l’umanità (cf. Dei Verbum, 21).
raggiungere questo scopo, il presente documento:
farà una breve descrizione dei diversi metodi e approcci,[1]indicando le loro possibilità e i loro limiti;
esaminerà alcune questioni di ermeneutica;
proporrà una riflessione sulle dimensioni caratteristiche dell’interpretazione cattolica della Bibbia e sui suoi rapporti con le altre discipline teologiche;
considererà infine il posto che occupa l’interpretazione della Bibbia nella vita della Chiesa.
I METODI E APPROCCI PER L’INTERPRETAZIONE
A. Metodo storico-critico
Il metodo storico-critico è il metodo indispensabile per lo studio scientifico del significato dei testi antichi. Poiché la Sacra Scrittura, in quanto «Parola di Dio in linguaggio umano», è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l’utilizzazione di questo metodo.
Per valutare in modo corretto questo metodo nel suo stato attuale, conviene gettare uno sguardo sulla sua storia. Alcuni elementi di questo metodo di interpretazione sono molto antichi. Furono usati nell’antichità da commentatori greci della letteratura classica e, più tardi, nel corso del periodo patristico, da autori come Origene, Girolamo e Agostino. Il metodo era allora meno elaborato. Le sue forme moderne sono il risultato di perfezionamenti, apportati soprattutto a partire dagli umanisti del Rinascimento e dal loro recursus ad fontes. Mentre la critica testuale del Nuovo Testamento si è sviluppata come disciplina scientifica solo a partire dal 1800, quando cioè ci si staccò dal Textus receptus, gli inizi della critica letteraria invece risalgono al XVII secolo, ad opera di Richard Simon, che attirò l’attenzione sui doppioni, sulle divergenze nel contenuto e le differenze di stile osservabili nel Pentateuco, constatazioni difficilmente conciliabili con l’attribuzione di tutto il testo ad un unico autore, Mosè. Nel secolo XVIII, Jean Astruc si limitava ancora a dare per spiegazione che Mosè si era servito di parecchie fonti (soprattutto di due fonti principali) per comporre il libro della Genesi, ma, in seguito, la critica contestò con sempre maggior risolutezza l’attribuzione a Mosè stesso della composizione de Pentateuco. La critica letteraria si identificò a lungo con lo sforzo per discernere le varie fonti dei testi.
Si sviluppò così, nel XIX se colo, l’ipotesi “documentaria”, che cercava di spiegare la redazione del Pentateuco. In esso sarebbero stati fusi quattro documenti in parte paralleli tra loro: lo yahvista (J), l’elohista (E), il deuteronomista (D) e il sacerdotale (P: dal tedesco “Priester”); di quest’ultimo si sarebbe servito il redattore finale per strutturare l’insieme. In modo analogo, per spiegare al tempo stesso le convergenze e le divergenze costatate tra i tre vangeli sinottici, si è fatto ricorso all’ipotesi delle “due fonti”, secondo la quale i vangeli di Matteo e di Luca sarebbero stati composti a partire da due fonti principali: il vangelo di Marco, da una parte, e, dall’altra, una raccolta di parole di Gesù (chiamata Q, dal tedesco Quelle, “fonte”) Quanto alla sostanza, queste due ipotesi sono ancora correnti nel l’esegesi scientifica, anche se oggetto di contestazioni.
Nel desiderio di stabilire la cronologia dei testi biblici, questo genere di critica letteraria si limitava a un lavoro di ritaglio e d analisi per distinguere le diverse fonti e non accordava una sufficiente attenzione alla struttura finale del testo biblico e al messaggio che esso esprime nel suo stato attuale (si mostrava poca stima per l’opera dei redattori). Per questo fatto l’esegesi storico-critica poteva apparire sovversiva e distruttrice, tanto più che alcuni esegeti, sotto l’influenza della storia comparata delle religioni, così come si praticava allora, o partendo da concezioni filosofiche, pronunciavano giudizi negativi nei confronti della Bibbia.
Hermann Gunkel fece uscire il metodo dal ghetto della critica letteraria intesa in questo modo. Sebbene egli continuasse a considerare i libri del Pentateuco delle compilazioni, fermò la sua attenzione sulla tessitura particolare dei diversi brani, cercando di definire il genere di ciascuno (per es. “leggenda” o “inno”) e il loro ambiente di origine o Sitz im Leben (per es. situazione giuridica, liturgica, ecc.). A questa ricerca dei generi letterari si collega lo «studio critico delle forme» (Formgeschichte) inaugurata nell’esegesi dei sinottici da Martin Dibelius e Rudolf Bultmann. Quest’ultimo mescolò agli studi di Formgeschichte un’ermeneutica biblica ispirata alla filosofia esistenzialista di Martin Heidegger. La conseguenza fu che la Formgeschichte ha suscitato spesso serie riserve.
Ma questo metodo, in se stesso, ha avuto il risultato di manifestare più chiaramente che la tradizione neotestamentaria ha avuto la sua origine e ha preso la sua forma nella comunità cristiana, o Chiesa primitiva, passando dalla predicazione di Gesù stesso alla predicazione che proclama che Gesù è il Cristo Alla Formgeschichte si è aggiunta la Redaktionsgeschichte, «studio critico della redazione», che cerca di mettere in luce contributo personale di ogni evangelista e gli orientamenti teologici che hanno guidato il loro lavoro di redazione. Con l’utilizzazione di quest’ultimo metodo la serie delle diverse tappe del metodo storico-critico è diventata più completa: dalla critica testuale si passa a una critica letteraria che scompone (ricerca delle fonti), poi a uno studio critico delle forme e infine a un’analisi della redazione, che è attenta al testo nella sua composizione. Così è diventata possibile una comprensione più chiara dell’intenzione degli autori e redattori della Bibbia, come pure del messaggio da essi rivolto ai primi destinatari. Il metodo storico-critico ha acquistato perciò un importanza di primo piano.
2. Principi
I principi fondamentali del metodo storico-critico nella sua forma classica sono i seguenti:
Si tratta di un metodo storico, non soltanto perché si applica a testi antichi, nel nostro caso a quelli della Bibbia, e ne studia la portata storica, ma anche e soprattutto perché cerca di chiarire i processi storici di produzione dei testi biblici, processi diacronici talvolta complicati e di lunga durata. Nelle diverse tappe della loro produzione, i testi della Bibbia si rivolgevano a diverse categorie di ascoltatori o di lettori, che si trovavano in situazioni spazio-temporali differenti.
Si tratta di un metodo critico, perché opera con l’aiuto di criteri scientifici il più possibile obiettivi in ciascuna delle sue tappe (dalla critica testuale allo studio critico della redazione), in modo da rendere accessibile al lettore moderno il significato dei testi biblici, spesso difficile da cogliere.
Come metodo analitico, esso studia il testo biblico allo stesso modo di qualsiasi altro testo dell’antichità e lo commenta in quanto linguaggio umano. Tuttavia permette all’esegeta, soprattutto nello studio critico della redazione dei testi, di meglio comprendere il contenuto della rivelazione divina.
3. Descrizione
Allo stadio attuale del suo sviluppo, il metodo storico-critico percorre le tappe seguenti:
La critica testuale, praticata da più lungo tempo, apre la serie delle operazioni scientifiche. Basandosi sulla testimonianza dei manoscritti più antichi e migliori, così come su quella dei papiri, delle traduzioni antiche e della patristica, essa cerca, secondo determinate regole, di stabilire un testo biblico che sia il più vicino possibile al testo originale.
Il testo viene poi sottomesso a un’analisi linguistica (morfologia e sintassi) e semantica, che utilizza le conoscenze ottenute grazie agli studi di filologia storica. La critica letteraria si sforza allora di individuare l’inizio e la fine delle unità testuali, grandi e piccole, e di verificare la coerenza interna dei testi. L’esistenza di doppioni, di divergenze inconciliabili e di altri indizi manifesta il carattere composito di certi testi, che vengono allora divisi in piccole unità, di cui si studia la possibile appartenenza a fonti diverse. La critica dei generi cerca di determinare i generi letterari, il loro ambiente di origine, i loro tratti specifici e la loro evoluzione. La critica delle tradizioni situa i testi nelle correnti di tradizione, di cui essa cerca di precisare l’evoluzione nel corso della storia. Infine, la critica della redazione studia le modifiche subite dai testi prima di essere fissati nel loro stato finale e analizza questo stato finale, sforzandosi di discernere gli orientamenti che gli sono propri. Mentre le tappe precedenti hanno cercato di spiegare il testo con la sua genesi, in una prospettiva diacronica, quest’ultima tappa termina con uno studio sincronico: vi si spiega il testo in se stesso, grazie alle mutue relazioni dei suoi diversi elementi e considerandolo sotto il suo aspetto di messaggio comunicato dall’autore ai suoi contemporanei. Può allora essere presa in considerazione la funzione pragmatica del testo.
Quando i testi studiati appartengono a un genere letterario storico o sono in rapporto con degli eventi della storia, la critica storica completa la critica letteraria, per precisare la loro portata storica, nel senso moderno dell’espressione.
In questo modo vengono messe in luce le diverse tappe dello svolgimento concreto della rivelazione biblica.
4. Valutazione
Quale valore accordare al metodo storico-critico, in particolare allo stadio attuale della sua evoluzione?
È un metodo che, utilizzato in modo obiettivo, non implica per sé alcun a priori. Se il suo uso è accompagnato da tali a priori, ciò non è dovuto al metodo in se stesso, ma a opzioni ermeneutiche che orientano l’interpretazione e possono essere tendenziose.
Orientato, ai suoi inizi, nel senso della critica delle fonti e della storia delle religioni, il metodo ha avuto il risultato di aprire un nuovo accesso alla Bibbia, mostrando che questa è una collezione di scritti che, il più delle volte, soprattutto per l’Antico Testamento, non sono creazione di un unico autore, ma hanno avuto un lunga preistoria, inestricabilmente legata alla storia di Israele o quella della Chiesa primitiva. Prima, l’interpretazione giudaica cristiana della Bibbia non aveva una coscienza chiara delle condizioni storiche concrete e diverse nelle quali la Parola di Dio si è radicata. Ne aveva una conoscenza globale e lontana. Il confronto dell’esegesi tradizionale con un approccio scientifico che, ai suoi inizi, faceva volutamente astrazione dalla fede e talvolta addirittura vi si opponeva, fu certamente doloroso; in seguito, però, si rivela salutare: una volta liberato dai pregiudizi estrinseci, portò a un comprensione più esatta della verità della Sacra Scrittura (cf. Dei Verbum, 12). Secondo la Divino afflante Spiritu, la ricerca del senso letterale della Scrittura è un compito essenziale dell’esegesi e, per adempiere tale compito, è necessario determinare il genere letterario dei testi (cf. Enchiridion Biblicum [=EB] 560); orbene questo si effettua con metodo storico-critico.
Certo, l’uso classico del metodo storico-critico rivela certi limiti poiché si restringe alla ricerca del senso del testo biblico nelle circostanze storiche della sua produzione e non si interessa alle alt potenzialità di significato che si sono manifestate nel corso delle epoche posteriori della rivelazione biblica e della storia della Chiesa. Tuttavia questo metodo ha contribuito alla produzione di opere di esegesi e di teologia biblica di grande valore.
Da molto tempo si è rinunciato a un amalgama di tale metodi con un sistema filosofico. Recentemente una tendenza esegetica ha indirizzato il metodo nel senso di un’insistenza predominante sulla forma del testo con minore attenzione al suo contenuto, ma questa tendenza è stata corretta grazie all’apporto di una semantica differenziata (semantica delle parole, delle frasi, del testo) e allo studio dell’aspetto pragmatico dei testi.
Circa l’inclusione, nel metodo, di un’analisi sincronica dei testi bisogna riconoscere che si tratta di un’operazione legittima perché è il testo nel suo stato finale, che è espressione della Parola di Dio, e non una redazione anteriore. Ma lo studio diacronico rimane in dispensabile per far comprendere il dinamismo storico che anima la Sacra Scrittura e per manifestare la sua ricca complessità: per esempio, il codice dell’Alleanza (Es 21-23) riflette uno stato politico, sociale e religioso della società israelitica diverso da quello che riflettono le altre legislazioni conservate nel Deuteronomio (D 12-26) e nel Levitico (codice di santità, Lv 17-26). Bisogna evitare che alla tendenza storicizzante che si rimproverava all’antica esegesi storico-critica succeda l’eccesso inverso, la dimenticanza della storia, da parte di un’esegesi esclusivamente sincronica.
In definitiva, lo scopo del metodo storico-critico è quello di mettere in luce, in modo soprattutto diacronico, il senso espresso dagli autori e redattori. Con l’aiuto di altri metodi e approcci, essa apre al lettore moderno l’accesso al significato del testo della Bibbia, così come l’abbiamo.
B. Nuovi metodi di analisi letteraria
Nessun metodo scientifico per lo studio della Bibbia è in grado di far emergere tutta la ricchezza dei testi biblici. Qualunque sia la sua validità, il metodo storico-critico non può avere la pretesa di essere sufficiente per tutto. Esso lascia necessariamente nel l’ombra numerosi aspetti degli scritti che studia. Non ci si meraviglierà allora di costatare come attualmente vengano proposti altri metodi e approcci, per approfondire l’uno o l’altro aspetto degni di attenzione.
In questo paragrafo B presenteremo alcuni metodi di analisi letteraria che si sono sviluppati recentemente. Nei paragrafi seguenti (C, D, E) esamineremo brevemente diversi approcci, di cui alcun sono in rapporto con lo studio della tradizione, altri con le “scienze umane”, altri ancora con situazioni contemporanee particolari. Considereremo infine (F) la lettura fondamentalista della Bibbia, che rifiuta ogni sforzo metodico di interpretazione.
Mettendo a profitto i progressi fatti nel nostro tempo dagli studi linguistici e letterari, l’esegesi biblica utilizza sempre di più nuovi metodi di analisi letteraria, in particolare l’analisi retorica, l’analisi narrativa e l’analisi semiotica.
1. Analisi retorica
A dire il vero, l’analisi retorica non è in se stessa un metodo nuovo. Nuova è, da una parte, la sua utilizzazione sistematica per l’interpretazione della Bibbia e, dall’altra, la nascita e lo sviluppo di una “nuova retorica”.
La retorica è l’arte di comporre discorsi persuasivi. Dato che tutti i testi biblici sono in qualche misura dei testi persuasivi, una certa conoscenza della retorica fa parte del bagaglio normale degli esegeti. L’analisi retorica deve essere condotta in modo critico, perché l’esegesi scientifica è un lavoro che si sottomette necessariamente alle esigenze dello spirito critico.
Molti studi recenti hanno prestato una grande attenzione alla presenza della retorica nella Scrittura. Si possono distinguere tre approcci diversi. Il primo si basa sulla retorica classica greco-latina; il secondo è attento ai procedimenti di composizione semitici; il terzo si ispira alle ricerche moderne, chiamate “nuova retorica”.
Ogni situazione di discorso comporta la presenza di tre elementi: l’oratore (o autore), il discorso (o testo) e l’uditorio (o destinatari). La retorica classica distingue, di conseguenza, tre fattori di persuasione che contribuiscono alla qualità di un discorso: l’autorità dell’oratore, l’argomentazione del discorso e le emozioni che esso suscita nell’uditorio. La diversità delle situazioni e dei destinatari influisce enormemente sul modo di parlare. La retorica classica, a partire da Aristotele, ammette la distinzione di tre generi di eloquenza: il genere giudiziario (davanti ai tribunali), il genere deliberativo (nelle assemblee politiche) e il genere dimostrativo (nelle celebrazioni).
Constatando l’enorme influenza della retorica nella cultura ellenistica, un numero crescente di esegeti utilizza i trattati di retorica classica per meglio analizzare alcuni aspetti degli scritti biblici, soprattutto quelli del Nuovo Testamento.
Altri esegeti concentrano la loro attenzione sui tratti specifici della tradizione letteraria biblica. Radicata nella cultura semitica, questa manifesta un gusto spiccato per le composizioni simmetriche, grazie alle quali vengono stabiliti dei rapporti tra i diversi elementi del testo. Lo studio delle molteplici forme di parallelismo e di altri procedimenti di composizione semitici deve permettere di meglio discernere la struttura letteraria dei testi e di pervenire così a una migliore comprensione del loro messaggio.
Mettendosi da un punto di vista più generale, la “nuova retorica” vuole essere qualcosa di diverso da un inventario delle figure di stile, degli artifici oratori e dei tipi di discorsi. Essa ricerca perché un certo uso del linguaggio è efficace e arriva a comunicare una convinzione; cerca di essere “realista”, rifiutando di limitarsi alla semplice analisi formale; dà alla situazione del dibattito l’attenzione che le è dovuta; studia lo stile e la composizione in quanto strumenti per esercitare un’azione sull’uditorio. A questo scopo mette a profitto i contributi recenti di discipline come la linguistica, la semiotica, l’antropologia e la sociologia.
Applicata alla Bibbia, la “nuova retorica” cerca di penetrare nel cuore del linguaggio della rivelazione in quanto linguaggio religioso persuasivo e valutare il suo impatto nel contesto sociale della comunicazione.
Le analisi retoriche, per l’arricchimento che apportano allo studio critico dei testi, meritano molta stima, soprattutto nei loro approfondimenti recenti. Esse rimediano a una negligenza durata a lungo e fanno scoprire o mettono maggiormente in luce prospettive originali.
La “nuova retorica” ha ragione di attirare l’attenzione sulla capacità persuasiva e convincente del linguaggio. La Bibbia non è semplicemente enunciazione di verità. È un messaggio dotato una funzione di comunicazione in un certo contesto, un messaggio che comporta un dinamismo di argomentazione e una strategia retorica.
Le analisi retoriche hanno tuttavia i loro limiti. Quando si limitano a essere descrittive, i loro risultati hanno spesso un interesse solo stilistico. Fondamentalmensincroniche, esse non possono pretendere di costituire un metodo indipendente che sarebbe sufficiente a se stesso. La loro applicazione ai testi biblici solleva più di un interrogativo: gli autori di questi testi appartenevano agli ambienti più colti? Fino a che punto hanno seguito le regole della retorica per comporre i loro scritti? Quale retorica è più pertinente per l’analisi di un determinato scritto: quella greco-latina o quel semitica? Non si rischia forse di attribuire a certi testi biblici una struttura retorica troppo elaborata? Questi interrogativi, ed altri ancora, non devono tuttavia dissuadere dall’usare questo gene di analisi; invitano soltanto a farvi ricorso con discernimento.
2. Analisi narrativa
L’esegesi narrativa propone un metodo di comprensione e di comunicazione del messaggio biblico che corrisponde alla forma del racconto e della testimonianza, modalità fondamentale della comunicazione tra persone umane, caratteristica anche della Sacra Scrittura. L’Antico Testamento, infatti, presenta una storia della salvezza il cui racconto efficace diventa sostanza della professione di fede, della liturgia e della catechesi (cf. Sal 78, 3-4; Es 12, 24-27; Dt 6, 20-25; 26, 5-10). Da parte sua, la proclamazione del kerigma cristiano comprende la sequenza narrativa della vita, della morte della risurrezione di Gesù Cristo, eventi di cui i vangeli ci offrono il racconto dettagliato. La catechesi si presenta, anch’essa, sotto forma narrativa (cf. 1Cor 11, 23-25).
Riguardo all’approccio narrativo, è opportuno distinguere metodi di analisi e riflessione teologica.
Attualmente vengono proposti numerosi metodi di analisi. Alcuni partono dallo studio dei modelli narrativi antichi. Altri si basano sull’una o l’altra “narratologia” attuale, che può avere dei punti in comune con la semiotica. Particolarmente attenta agli elementi del testo che riguardano l’intreccio, i personaggi e il punto di vista del narratore, l’analisi narrativa studia il modo in cui la storia viene raccontata così da coinvolgere il lettore nel “mondo del racconto” e nel suo sistema di valori.
Parecchi metodi introducono una distinzione tra “autore reale” e “autore implicito”, “lettore reale” e “lettore implicito”. L’“autore reale” è la persona che ha composto il racconto. Con “autore implicito” si indica l’immagine di autore che il testo genera progressivamente nel corso della lettura (con la sua cultura, il suo temperamento, le sue tendenze, la sua fede, ecc.). Si chiama “lettore reale” ogni persona che ha accesso al testo, dai primi destinatari che l’hanno letto o sentito leggere fino ai lettori o ascoltatori di oggi. Per “lettore implicito” si intende colui che il testo presuppone e produce, colui che è capace di effettuare le operazioni mentali e affettive richieste per entrare nel mondo del racconto e rispondervi nel modo voluto dall’autore reale attraverso l’autore implicito.
Un testo continua a esercitare la sua influenza nella misura in cui i lettori reali (per esempio noi stessi, alla fine del XX secolo) possono identificarsi con il lettore implicito. Uno dei compiti principali dell’esegesi è quello di facilitare questa identificazione.
All’analisi narrativa si collega un modo nuovo di valutare la portata dei testi. Mentre il metodo storico-critico considera piuttosto il testo come una “finestra”, che permette di dedicarsi a varie osservazioni su una determinata epoca (non soltanto sui fatti raccontati, ma anche sulla situazione della comunità per la quale sono stati raccontati), si sottolinea che il testo funziona anche come “specchio”, nel senso che presenta una certa immagine di mondo, il “mondo del racconto”, che esercita la sua influenza sui modi di vedere del lettore e lo porta ad adottare certi valori piuttosto che altri.
A questo genere di studio, tipicamente letterario, si è associata la riflessione teologica, considerando le conseguenze che comporta, per l’adesione di fede, la natura di racconto, e quindi di testimonianza, della Sacra Scrittura e deducendo da esso un’ermeneutica di tipo pratico e pastorale. Si reagisce in questo modo contro la riduzione del testo ispirato a una serie di tesi teologiche formulate spesso secondo delle categorie e un linguaggio non scritturistici. Si richiede all’esegesi narrativa di riabilitare, in contesti storici nuovi, i modi di comunicazione e di significazione propri del racconto biblico, allo scopo di aprire meglio la strada alla sua efficacia per la salvezza. Si insiste sulla necessità di «raccontare la salvezza» (aspetto “informativo” del racconto) e di «raccontare in vista della salvezza» (aspetto “performativo”). Il racconto biblico, infatti, contiene, esplicitamente o implicitamente, secondo i casi, un appello esistenziale rivolto al lettore.
Per l’esegesi della Bibbia, l’analisi narrativa presenta un’evidente utilità, perché corrisponde alla natura narrativa di un gran numero di testi biblici. Può contribuire a facilitare il passaggio, spesso difficile, dal senso del testo nel suo contesto storico, così come il metodo storico-critico cerca di definirlo, al senso che ha per il lettore di oggi. D’altra parte, però, la distinzione tra “autore reale” e “autore implicito” aumenta la complessità dei problemi di interpretazione.
L’analisi narrativa dei testi biblici non può limitarsi ad applicare su di essi dei modelli prestabiliti, ma deve piuttosto sforzarsi di corrispondere alla loro specificità. Il suo approccio sincronico richiede di essere completato da studi diacronici. Deve d’altra parte guardarsi da una possibile tendenza a escludere ogni elaborazione dottrinale dei dati contenuti nei racconti della Bibbia, nel quale caso si troverebbe in disaccordo con la stessa tradizione biblica, che pratica questo genere di elaborazione, e con la tradizione ecclesiale, che ha continuato in questa strada. È opportuno, infine, notare che non è possibile considerare l’efficacia esistenziale soggettiva della Parola di Dio trasmessa narrativamente come un criterio sufficiente della verità della sua comprensione.
3. Analisi semiotica
Tra i metodi detti sincronici, che si concentrano cioè sullo studio del testo biblico così come si presenta nel suo stato finale, si colloca l’analisi semiotica, che, da una ventina d’anni, ha conosciuto in certi ambienti un enorme sviluppo. Dapprima chiamato col termine generico di “strutturalismo”, questo metodo può vantare come antenato il linguista svizzero Ferdinand de Saussure che, all’inizio di questo secolo, ha elaborato la teoria secondo la quale ogni lingua è un sistema di relazioni che obbedisce a regole determinate. Molti linguisti e studiosi di materie letterarie hanno avuto un’influenza notevole nell’evoluzione del metodo. La maggior parte dei biblisti che utilizzano la semiotica per lo studio della Bibbia fanno riferimento a Algirdas J. Greimas e alla Scuola di Parigi di cui egli è il fondatore. Altri approcci o metodi analoghi, fondati sulla linguistica moderna, si sviluppano altrove. Qui presenteremo e analizzeremo brevemente il metodo di Greimas.
La semiotica si basa su tre principi o presupposti principali: Principio di immanenza: ogni testo forma un tutto di significazione; l’analisi considera tutto il testo, ma soltanto il testo; non fa appello a dati “esterni”, quali l’autore, i destinatari, gli eventi raccontati, la storia della redazione.
Principio di struttura del senso: non c’è significato che per la relazione e nella relazione, specialmente quella di differenza; l’analisi di un testo consiste quindi nello stabilire la rete di relazioni (di opposizione, di omologazione...) tra gli elementi, a partire dalla quale costruisce il significato del testo.
Principio della grammatica del testo: ogni testo rispetta una grammatica, cioè un certo numero di regole o strutture; in un insieme di frasi chiamate discorso ci sono diversi livelli aventi ciascuno la loro grammatica.
Il contenuto globale di un testo può essere analizzato a tre livelli differenti:
Livello narrativo. Si studiano, nel racconto, le trasformazione che fanno passare dallo stato iniziale allo stato terminale. All’interno di un percorso narrativo, l’analisi cerca di tracciare le diverse fasi, logicamente legate tra loro, che segnano la trasformazione di uno stato in un altro. In ciascuna di queste fasi vengono precisati rapporti tra i “ruoli” che hanno alcuni “attanti” che determinano gli stati e producono le trasformazioni.
Livello discorsivo. L’analisi consiste in tre operazioni: (a) individuazione e classificazione delle figure, cioè degli elementi di significazione di un testo (attori, tempi e luoghi); (b) determinazione dei percorsi di ogni figura in un testo per stabilire il modo in cui testo l’utilizza; (c) ricerca dei valori tematici delle figure. Quest’ultima operazione consiste nell’individuare «in nome di che cosa» (= valore) le figure seguono, in un testo determinato, un certo percorso.
Livello logico-semantico. È il livello detto profondo. È anche il più astratto. Esso procede dal postulato che alle organizzazioni narrative e discorsive di ogni discorso sono soggiacenti forme logiche e significanti. L’analisi a questo livello consiste nel precisare la logica che regola le articolazioni fondamentali dei percorsi narrativi e figurativi di un testo. Per fare ciò, si usa spesso uno strumento, chiamato il “quadrato semiotico”, figura che utilizza i rapporti tra due termini “contrari” e due termini “contraddittori” (per es. bianco e nero; bianco e non bianco; nero e non nero).
I teorici del metodo semiotico non cessano di apportarvi nuovi sviluppi. Le ricerche attuali vertono soprattutto sull’enunciazione e sull’intertestualità. Applicato dapprima ai testi narrativi della Scrittura, che vi si prestano più facilmente, il metodo viene sempre più utilizzato per altri tipi di discorsi biblici.
Questa descrizione della semiotica e soprattutto l’enunciato dei suoi presupposti lasciano già percepire i contributi e i limiti di questo metodo. Attirando maggiormente l’attenzione sul fatto che ogni testo biblico è un tutto coerente, che obbedisce a meccanismi linguistici precisi, la semiotica contribuisce alla nostra comprensione della Bibbia, Parola di Dio espressa in linguaggio umano.
La semiotica può essere utilizzata per lo studio della Bibbia solo a condizione che si separi questo metodo di analisi da alcuni presupposti sviluppati nella filosofia strutturalista, cioè la negazione dei soggetti e del riferimento extra testuale. La Bibbia è una Parola sul reale, che Dio ha pronunciato in una storia, e che ci rivolge oggi attraverso autori umani. L’approccio semiotico dev’essere aperto alla storia: dapprima a quella degli attori dei testi, e poi a quella dei loro autori e dei loro lettori. Grande è il rischio, in quelli che utilizzano l’analisi semiotica, di fermarsi a uno studio formale del contenuto e di non cogliere il messaggio dei testi.
L’analisi semiotica, se non si perde negli arcani di un linguaggio complicato e viene insegnata in termini semplici nei suoi elementi principali, può risvegliare nei cristiani il gusto di studiare il testo biblico e di scoprire alcune delle sue dimensioni di significato senza possedere tutte le conoscenze storiche che si riferiscono alla produzione del testo e al suo mondo socio-culturale. Può così rivelarsi utile nella stessa pastorale, per una certa appropriazione della Scrittura in ambienti non specializzati.
C. Approcci basati sulla Tradizione
I metodi letterari che abbiamo presentato, anche se si differenziano dal metodo storico-critico per una maggiore attenzione all’unità interna dei testi studiati, rimangono insufficienti per l’interpretazione della Bibbia in quanto considerano ogni scritto isolatamente. Ora, la Bibbia non si presenta come una collezione di testi privi di qualsiasi relazione tra loro, ma come un insieme di testimonianze di una stessa grande Tradizione. Per corrispondere pienamente all’oggetto del suo studio, l’esegesi biblica deve tener conto di questo fatto. Tale è la prospettiva adottata da vari approcci che si sono sviluppati recentemente.
1. Approccio canonico
Partendo dalla constatazione che il metodo storico-critico incontra talvolta delle difficoltà a raggiungere, nelle sue conclusioni, il livello teologico, l’approccio “canonico”, nato una ventina d’anni fa negli Stati Uniti, intende portare proprio al compito teologico dell’interpretazione, partendo dalla cornice esplicita della fede: la Bibbia nel suo insieme.
Per fare ciò interpreta ogni testo biblico alla luce del canone delle Scritture, cioè della Bibbia ricevuta come norma di fede da una comunità di credenti. Cerca di situare ogni testo all’interno dell’unico disegno di Dio, allo scopo di arrivare a un’attualizzazione della Scrittura per il nostro tempo. Non ha la pretesa di sostituirsi al metodo storico-critico, ma si prefigge di completarlo.
Sono stati proposti due punti di vista differenti:
Brevard S. Childs centra il suo interesse sul testo nella sua forma canonica finale (libro o collezione), accettata dalla comunità come un’autorità per esprimere la propria fede e orientare la propria vita.
Più che sulla forma finale e stabilita del testo, James A. Sanders porta la sua attenzione sul “processo canonico” o sviluppo progressivo delle Scritture alle quali la comunità credente ha riconosciuto un’autorità normativa. Lo studio critico di questo processo esamina come le antiche tradizioni sono state riutilizzate in nuovi contesti, prima di costituire un tutto al tempo stesso stabile e adattabile, coerente e unificatore di dati divergenti, nel quale la comunità di fede attinge la sua identità. Nel corso di questo processo sono stati messi in opera certi procedimenti ermeneutici e lo sono ancora dopo la fissazione del canone; sono spesso di genere midrashico, tendenti ad attualizzare il testo biblico, e favoriscono una costante interazione tra la comunità e le sue Scritture, facendo appello a un’interpretazione che mira a rendere contemporanea la tradizione.
L’approccio canonico reagisce giustamente contro la valorizzazione esagerata di ciò che si suppone essere originale e primitivo, come se solo questo fosse autentico. La Scrittura ispirata è quella che la Chiesa ha riconosciuta come regola della propria fede. Si può insistere, a questo proposito, o sulla forma finale in cui si trova attualmente ciascuno dei libri, o sull’insieme che essi costituiscono come canone. Un libro diventa biblico solo alla luce dell’intero canone.
La comunità credente è effettivamente il contesto adeguato per l’interpretazione dei testi canonici. La fede e lo Spirito Santo arricchiscono in essa l’esegesi; l’autorità ecclesiale, esercitata a servizio della comunità, deve vegliare che l’interpretazione resti fedele alla grande Tradizione che ha prodotto i testi (cf. Dei Verbum, 10).
L’approccio canonico si trova alle prese con più di un problema, soprattutto quando cerca di definire il “processo canonico”. A partire da che cosa si può dire che un testo è canonico? Sembra ammissibile dirlo appena la comunità attribuisce a un testo un’autorità normativa, anche prima della fissazione definitiva di questo testo. Si può parlare di un’ermeneutica “canonica” dal momento che la ripetizione delle tradizioni, che si effettua tenendo conto de gli aspetti nuovi della situazione (religiosa, culturale, teologica) mantiene l’identità del messaggio. Ma nasce un interrogativo: il processo d’interpretazione che ha portato alla formazione del canone dev’essere riconosciuto come regola d’interpretazione della Scrittura fino ai nostri giorni?
D’altra parte, i complessi rapporti tra il canone ebraico delle Scritture e il canone cristiano suscitano numerosi problemi per l’interpretazione. La Chiesa cristiana ha ricevuto come “Antico Testamento” gli scritti che avevano autorità nella comunità giudaico ellenistica, ma alcuni di questi sono assenti nella Bibbia ebraica o si presentano in forma diversa. Il corpus è quindi diverso. Perciò l’interpretazione canonica non può essere identica, dal momento che ogni testo dev’essere letto in relazione con l’insieme del corpo, ma, soprattutto, la Chiesa legge l’Antico Testamento alla luce dell’evento pasquale, morte e risurrezione del Cristo Gesù, che apporta una radicale novità e dà, con un’autorità sovrana, un senso decisivo e definitivo alle Scritture (cf. Dei Verbum, 4). Questa nuova determinazione di senso fa parte integrante della fede cristiana. Non deve tuttavia privare di ogni consistenza l’interpretazione canonica anteriore, quella che ha preceduto la Pasqua cristiana, perché è necessario rispettare ogni tappa della storia della salvezza. Svuotare della sua sostanza l’Antico Testamento significherebbe privare il Nuovo Testamento del suo radicamento nella storia.
2. Approccio mediante il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche
L’Antico Testamento ha assunto la sua forma finale nel giudaismo degli ultimi quattro o cinque secoli che hanno preceduto l’era cristiana. Questo giudaismo è stato anche l’ambiente di origine del Nuovo Testamento e della Chiesa nascente. Numerosi studi di storia giudaica antica, e in particolare le ricerche suscitate dalle scoperte di Qumran, hanno messo in rilievo la complessità del mondo giudaico, in terra d’Israele e nella diaspora, nel corso di questo periodo.
L’interpretazione della Bibbia ha avuto origine in questo mondo. Una delle testimonianze più antiche dell’interpretazione giudaica della Bibbia è la traduzione greca dei Settanta. I targumim aramaici costituiscono un’altra testimonianza dello stesso sforzo, proseguito fino ai nostri giorni, accumulando un insieme prodigioso di procedimenti eruditi per la conservazione del testo dell’Antico Testamento e per la spiegazione del senso dei testi biblici. Da sempre i migliori esegeti cristiani, fin da Origene e san Girolamo, hanno cercato di trarre profitto dall’erudizione biblica giudaica pel una migliore comprensione della Scrittura. Numerosi esegeti moderni seguono il loro esempio.
Le tradizioni giudaiche antiche permettono, in particolare, di meglio conoscere i Settanta, Bibbia giudaica, divenuta poi la prima parte della Bibbia cristiana almeno durante i primi quattro secoli della Chiesa e in Oriente fino ai nostri giorni. La letteratura giudaica extra canonica, chiamata apocrifa o intertestamentaria, abbondante e diversificata, è una fonte importante per l’interpretazione del Nuovo Testamento. I vari procedimenti esegetici praticati dal giudaismo delle diverse tendenze si ritrovano nello stesso Antico Testamento, per esempio nei libri delle Cronache in rapporto ai libri dei Re, e nel Nuovo Testamento, per esempio in certi ragionamenti scritturistici di san Paolo. La diversità delle forme (parabole, allegorie, antologie e centoni, riletture, pesher, accostamenti tra testi lontani salmi e inni, visioni, rivelazioni e sogni, composizioni sapienziali) è comune all’Antico e al Nuovo Testamento, come pure alla letteratura di tutti gli ambienti giudaici prima e dopo il tempo di Gesù. I targumim e i midrashim rappresentano l’omiletica e l’interpretazione biblica di ampi settori del giudaismo dei primi secoli.
Numerosi esegeti dell’Antico Testamento fanno ricorso ai commentatori, grammatici e lessicografi ebrei medievali e più recenti per la comprensione di passi oscuri o di parole rare e uniche. Più numerosi di prima appaiono oggi nella discussione esegetica i riferimenti a queste opere giudaiche.
La ricchezza dell’erudizione giudaica messa a servizio della Bibbia, dalle sue origini nell’antichità fino ai nostri giorni, è un aiuto di primaria importanza per l’esegesi dei due Testamenti, a condizione però di usarla con discernimento. Il giudaismo antico era molto vario. La forma farisaica, che ha poi prevalso nel rabbinismo, non era la sola. I testi giudaici antichi abbracciano un periodo di vari secoli; è quindi importante situarli cronologicamente prima di procedere a confronti. Soprattutto è fondamentalmente diverso il contesto d’insieme delle due comunità, ebraica e cristiana: in forme molto varie, la religione ebraica definisce un popolo e una pratica di vita a partire da uno scritto rivelato e da una tradizione orale, mentre a radunare la comunità cristiana è la fede nel Signore Gesù, morto, risorto e ora vivo, Messia e Figlio di Dio. Questi due punti di partenza creano, per l’interpretazione delle Scritture, due contesti che, nonostante molti contatti e similitudini, sono radicalmente diversi.
3. Approccio attraverso la storia degli effetti del testo
Questo approccio si basa su due principi: a) un testo diventa un’opera letteraria solo quando incontra dei lettori che gli danno vita appropriandosene; b) l’appropriazione del testo, che può essere individuale o comunitaria e prendere forma in campi diversi (letterario, artistico, teologico, ascetico e mistico), contribuisce a far meglio comprendere il testo stesso.
Pur senza essere completamente sconosciuto nell’antichità, questo tipo di approccio si è sviluppato tra il 1960 e 1970 negli studi letterari, quando la critica si è interessata ai rapporti tra il testo e i suoi lettori. L’esegesi biblica non poteva che trarre beneficio da questa ricerca, tanto più che l’ermeneutica filosofica affermava da parte sua la necessaria distanza tra l’opera e il suo autore, come pure tra l’opera e i suoi lettori. In questa prospettiva si è cominciato a far entrare nel lavoro di interpretazione la storia dell’effetto provocato da un libro o da un passo della Scrittura (Wirkungsgeschichte). Ci si sforza di misurare l’evoluzione dell’interprenel corso del tempo in funzione delle preoccupazioni dei lettori e di valutare l’importanza del ruolo della tradizione per chiarire il senso dei testi biblici.
Dal confronto di un testo con i suoi lettori scaturisce una dinamica, poiché il testo esercita un’influenza e provoca delle reazioni; fa risuonare un appello, che è sentito dai lettori individualmente o in gruppi. Il lettore non è del resto mai un soggetto isolato, ma appartiene a uno spazio sociale e si situa in una tradizione. Accosta il testo con le sue domande, opera una selezione, propone un’interpretazione e, finalmente, può creare un’altra opera o prendere delle iniziative che si ispirano direttamente alla sua lettura della Scrittura.
Gli esempi di un tale approccio sono già numerosi. La storia della lettura del Cantico dei Cantici ne offre un’eccellente testimonianza; essa mostra come questo libro fu accolto all’epoca dei Padri della Chiesa, nell’ambiente monastico latino nel medioevo o ancora presso un mistico come san Giovanni della Croce, permettendo così di scoprire meglio tutte le dimensioni di significato di questo scritto. Similmente per il Nuovo Testamento, è possibile e utile illuminare il significato di una pericope (per esempio, quella del giovane ricco di Mt 19, 16-26) mostrando la sua fecondità nel corso della storia della Chiesa.
Ma la storia attesta anche l’esistenza di correnti interpretative tendenziose e false, dagli effetti nefasti, che hanno portato, per esempio, all’antisemitismo o ad altre discriminazioni razziali o ad illusioni millenaristiche. Si vede allora come questo approccio non può essere una disciplina autonoma, ma richiede un discernimento. Occorre guardarsi dal privilegiare l’uno o l’altro momento della storia degli effetti di un testo per farne l’unica regola della sua interpretazione.
D. Approcci attraverso le scienze umane
Per comunicarsi, la Parola di Dio ha posto le sue radici nella vita di gruppi umani (cf. Sir 24, 12) e si è aperta una strada attraverso i condizionamenti psicologici delle diverse persone che hanno composto gli scritti biblici. Ne consegue che le scienze umane, in particolare la sociologia, l’antropologia e la psicologia, possono contribuire a una migliore comprensione di certi aspetti dei testi. È opportuno tuttavia notare che esistono varie scuole, con notevoli divergenze sulla natura stessa di queste scienze. Detto ciò un buon numero di esegeti ha recentemente tratto profitto da questo genere di ricerche.
1. Approccio sociologico
I testi religiosi sono legati da un rapporto di reciproca relazione alle società nella quali hanno origine. Questa constatazione vale evidentemente anche per i testi biblici. Di conseguenza lo studio critico della Bibbia richiede la conoscenza più esatta possibile dei comportamenti sociali che caratterizzavano i diversi ambienti nei qual si formarono le tradizioni bibliche. Questo genere di informazione socio-storica va completato con una corretta spiegazione sociologica, che interpreti scientificamente, in ogni caso, la portata delle condizioni sociali di vita.
Nella storia dell’esegesi, già da molto tempo il punto di vista sociologico ha trovato un certo posto; ne è una testimonianza l’attenzione che la Formgeschichte ha accordato all’ambiente di origine dei testi (Sitz im Leben): si riconosce che le tradizioni bibliche portano il segno degli ambienti socio-culturali che li hanno trasmessi. Nei primi trent’anni del XX secolo, la Scuola di Chicago ha studiato la situazione socio-storica del cristianesimo primitivo, dando così alla critica storica un impulso apprezzabile in questa direzione. Nel corso degli ultimi venti anni (1970-1990), l’approccio sociologico dei testi biblici è diventato parte integrante dell’esegesi.
Numerosi sono gli interrogativi che si pongono in questo campo per l’esegesi dell’Antico Testamento. Bisogna domandarsi, ad esempio, quali sono le diverse forme di organizzazione sociale e religiosa conosciute da Israele nel corso della sua storia. Per il periodo anteriore alla formazione di uno stato, è possibile che il modello, etnologico di una società acefala segmentaria fornisca una base di partenza soddisfacente? Come si è passati da una lega di tribù, senza grande coesione, a uno stato organizzato in monarchia e, da lì, a una comunità basata semplicemente su dei legami religiosi e genealogici? Quali trasformazioni economiche, militari e di altro genere furono provocate nella struttura della società dal movimento di centralizzaziopolitica e religiosa che portò alla monarchia? Lo studio delle norme di comportamento nell’Antico Oriente e in Israele non contribuisce alla comprensione del Decalogo più efficacemente dei tentativi puramente letterari di ricostruzione di un testo primitivo?
Per l’esegesi del Nuovo Testamento gli interrogativi sono evidentemente differenti. Ne citiamo alcuni: per spiegare il genere di vita adottato prima della Pasqua da Gesù e i suoi discepoli, quale valore si può accordare alla teoria di un movimento carismatico itinerante, che viveva senza un domicilio, né famiglia, né beni? Si è mantenuta una relazione di continuità, basata sull’appello di Gesù a seguirlo, tra l’atteggiamento di radicale distacco adottato da Gesù, e quello del movimento cristiano dopo la Pasqua, negli ambienti più diversi del cristianesimo primitivo? Cosa sappiamo della struttura sociale delle comunità paoline, tenuto conto, in ogni caso, della cultura urbana corrispondente?
In genere, l’approccio sociologico offre una più grande apertura al lavoro esegetico e comporta molti aspetti positivi. La conoscenza dei dati sociologici che contribuiscono a far comprendere il funzionamento economico, culturale e religioso del mondo biblico è indispensabile alla critica storica. Il compito, che incombe all’esegesi, di prestare molta attenzione alla testimonianza di fede della Chiesa apostolica non può essere portato a buon fine in modo rigoroso senza una ricerca scientifica che studi gli stretti rapporti di testi del Nuovo Testamento con il “vissuto” sociale della Chiesa primitiva. L’utilizzazione dei modelli forniti dalla scienza sociologica assicura alle ricerche degli storici sulle epoche bibliche una notevole capacità di rinnovamento, ma è necessario, naturalmente, che i modelli siano modificati in funzione della realtà studiata.
È il caso di segnalare alcuni rischi che l’approccio sociologico fa correre all’esegesi. In effetti, se il lavoro della sociologia consiste nello studiare le società viventi, bisogna aspettarsi certe difficoltà quando si vogliono applicare i suoi metodi ad ambienti storici che appartengono a un passato lontano. I testi biblici ed extra biblici non forniscono necessariamente una documentazione sufficiente per dare una visione d’insieme della società dell’epoca. Inoltre, il metodo sociologico tende ad accordare più attenzione agli aspetti economici e istituzionali dell’esistenza umana che alle sue dimensioni personali e religiose.
2. Approccio attraverso l’antropologia culturale
L’approccio ai testi biblici che utilizza le ricerche di antropologia culturale è in stretto rapporto con quello sociologico. La distinzione dei due si situa al tempo stesso al livello della sensibilità, a quello del metodo e a quello degli aspetti della realtà che attirano l’attenzione. Mentre l’approccio sociologico, come abbiamo appena detto, studia soprattutto gli aspetti economici e istituzionali, quello antropologico si interessa a un vasto insieme di altri aspetti che si riflettono nella lingua, nell’arte, nella religione, ma anche nei vestiti, negli ornamenti, nelle feste, nelle danze, nei miti, nelle leggende e in tutto ciò che concerne l’etnografia.
In genere, l’antropologia culturale cerca di definire le caratteristiche dei diversi tipi di uomini nel loro ambiente sociale, come, per esempio, l’uomo mediterraneo, con tutto ciò che questo implica di studio dell’ambiente rurale o urbano e di attenzione ai valori riconosciuti dalla società (onore e disonore, segreto, fedeltà, tradizione, tipo di educazione e di scuole), al modo in cui si esercita il controllo sociale, alle idee che si ha della famiglia, della casa, della parentela, alla situazione della donna, ai binomi istituzionali (capo-dipendente, proprietario-locatario, benefattore-beneficiario, libero-schiavo), senza dimenticare la concezione del sacro e del profano, i tabù, il rituale del passaggio da una situazione a un’altra, la magia, l’origine delle risorse, del potere, dell’informazione, ecc.
Sulla base di questi diversi elementi si costituiscono delle tipologie e dei modelli, comuni a parecchie culture.
Questo genere di studi può evidentemente essere utile per l’interpretazione dei testi biblici ed è effettivamente utilizzato per lo studio delle concezioni della parentela nell’Antico Testamento, della posizione della donna nella società israelitica, dell’influenza dei riti agrari, ecc. Nei testi che riferiscono l’insegnamento di Gesù, per esempio le parabole, molti dettagli possono essere illuminati grazie a questo approccio. Lo stesso avviene per certe concezioni fondamentali, come quella del Regno di Dio, o per il modo di concepire il tempo nella storia della salvezza, come pure per il processo di agglutinazione delle comunità primitive. Questo approccio permette di distinguere meglio gli elementi permanenti del messaggio biblico che hanno il loro fondamento nella natura umana, e le determinazioni contingenti, dovute a culture particolari. Tuttavia, come altri approcci particolari, anche questo è incapace, in se stesso, di rendere conto dei contributi specifici della Rivelazione. È opportuno esserne consapevoli al momento di valutare la portata dei suoi risultati.
3. Approcci psicologici e psicanalitici
Psicologia e teologia non hanno mai cessato di essere in dialogo tra loro. L’estensione moderna delle ricerche psicologiche allo studio delle strutture dinamiche dell’inconscio ha suscitato nuovi tentativi di interpretazione dei testi antichi, e quindi anche della Bibbia. Intere opere sono state dedicate all’interpretazione psicanalitica di testi biblici. Ne sono seguite vivaci discussioni: in che misura e a quali condizioni le ricerche psicologiche e psicanalitiche possono contribuire a una più profonda comprensione della Sacra Scrittura?
Gli studi di psicologia e di psicanalisi apportano all’esegesi biblica un arricchimento, poiché, grazie ad essi, i testi della Bibbia possono essere meglio compresi in quanto esperienze di vita e regole di comportamento. La religione, come è noto, è sempre in una situazione di dibattito con l’inconscio. Partecipa, in misura molto ampia, al corretto orientamento delle pulsioni umane. Le tappe che la critica storica percorre metodicamente hanno bisogno di essere completate da una studio dei diversi livelli della realtà espressa nei testi. La psicologia e la psicanalisi si sforzano di avanzare in questa direzione. Aprono la strada a una comprensione pluridimensionale della Scrittura e aiutano a decifrare il linguaggio umano della Rivelazione.
La psicologia e, in altro modo, la psicanalisi hanno portato, in particolare, una nuova comprensione del simbolo. Il linguaggio simbolico permette di esprimere zone dell’esperienza religiosa che non sono accessibili al ragionamento puramente concettuale, ma hanno nondimeno un valore per il problema della verità. Perciò uno studio interdisciplinare, condotto in comune da esegeti e psicologi o psicanalisti, presenta indubbi vantaggi, fondati oggettivamente e confermati nella pastorale.
Si potrebbero citare numerosi esempi che mostrano la necessità di uno sforzo comune degli esegeti e degli psicologi: per comprendere meglio il significato dei riti del culto, dei sacrifici, dei divieti, per spiegare il linguaggio immaginoso della Bibbia, la portata metaforica dei racconti di miracoli, la forza drammatica delle visioni o dei messaggi apocalittici. Non si tratta semplicemente di descrivere il linguaggio simbolico della Bibbia, ma di comprendere la sua funzione di rivelazione e di interpellazione: la realtà “numinosa” di Dio entra lì in contatto con l’uomo.
Il dialogo tra esegesi e psicologia o psicanalisi in vista di una migliore comprensiodella Bibbia deve evidentemente essere critico e rispettare le frontiere di ogni disciplina. In ogni caso, una psicologia o una psicanalisi che fosse atea sarebbe incapace di rendere conto dei dati della fede. Psicologia e psicanalisi, utili per precisare l’estensione della responsabilità umana, non devono eliminare la realtà del peccato e della salvezza. Bisogna d’altra parte guardarsi dal confondere religiosità spontanea e rivelazione biblica o dal dimenticare il carattere storico del messaggio della Bibbia, che assicura ad esso valore di evento unico.
Osserviamo, inoltre, che non si può parlare di “esegesi psicanalitica” come se non ce ne fosse che una sola. Esiste in realtà, proveniente da diversi campi della psicologia e da diverse scuole, una moltitudine di conoscenze che possono fornire contributi preziosi per l’interpretazione umana e teologica della Bibbia. Assolutizzare l’una o l’altra posizione di una data scuola non favorisce la fecondità dello sforzo comune, ma piuttosto la danneggia.
Le scienze umane non si riducono alla sociologia, all’antropologia culturale e alla psicologia. Altre discipline possono essere ugualmente utili per l’interpretazione della Bibbia. In tutti questi campi è necessario rispettare le competenze e riconoscere che è poco frequente che una stessa persona sia al tempo stesso qualificata in esegesi e in una o l’altra delle scienze umane.
E. Approcci contestuali
L’interpretazione di un testo è sempre dipendente dalla mentalità e dalle preoccupazioni dei suoi lettori. Questi accordano un’attenzione privilegiata ad alcuni aspetti e, senza nemmeno rendersene conto, ne trascurano altri. È perciò inevitabile che vari esegeti adottino, nei loro lavori, punti di vista nuovi corrispondenti a certe correnti di pensiero contemporanee che non hanno avuto, finora, un posto sufficiente. È opportuno che lo facciano con discernimento critico. Attualmente attirano particolarmente l’attenzione i movimenti di liberazione e il femminismo.
1. Approccio liberazionista
La teologia della liberazione è un fenomeno complesso che non va indebitamente semplificato. Come movimento teologico, esso si consolida verso gli inizi degli anni settanta. Suo punto di partenza, oltre alle circostanze economiche, sociali e politiche dei paesi dell’America Latina, si trova in due grandi avvenimenti ecclesiali: il concilio Vaticano II, con la sua dichiarata volontà di aggiornamento e di orientazione del lavoro pastorale della Chiesa verso i bisogni del mondo attuale, e la II Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-Americano a Medellin nel 1968, che ha applicato gli insegnamenti del Concilio ai bisogni dell’America Latina. Il movimento si è propagato anche in altre parti del mondo (Africa, Asia, popolazione nera degli Stati Uniti).
È difficile discernere se esista “una” teologia della liberazione e definirne il metodo. Altrettanto difficile è determinare in maniera adeguata il suo modo di leggere la Bibbia per indicarne poi gli apporti e i limiti. Si può dire che essa non adotta un metodo speciale, ma, partendo da punti di vista socio-culturali e politici propri, pratica una lettura biblica orientata in funzione dei bisogni del popolo, che cerca nella Bibbia il nutrimento per la propria fede e la propria vita.
Invece di limitarsi a un’interpretazione oggettivante, che si concentri su ciò che dice il testo situato nel suo contesto di origine, si cerca una lettura che nasca dalla situazione vissuta dal popolo. Se questo vive in circostanze di oppressione, si ricorre alla Bibbia per cercarvi il nutrimento capace di sostenerlo nelle sue lotte e nelle sue speranze. La realtà presente non dev’essere ignorata, ma al contrario affrontata, allo scopo di illuminarla alla luce della Parola. Da questa lotta scaturirà la prassi cristiana autentica, tendente alla trasformazione della società per mezzo della giustizia e dell’amore. Nella fede, la Scrittura si trasforma in fattore di dinamismo di liberazione integrale.
I principi sono i seguenti:
Dio è presente nella storia del suo popolo per salvarlo. Egli è il Dio dei poveri, che non può tollerare l’oppressione né l’ingiustizia. Questa è la ragione per cui l’esegesi non può essere neutra, ma deve schierarsi, al seguito di Dio, dalla parte dei poveri e impegnarsi nella lotta per la liberazione degli oppressi. La partecipazione a questa lotta permette di far apparire dei significati che si scoprono solo quando i testi biblici vengono letti in un contesto di solidarietà effettiva con gli oppressi.
Poiché la liberazione degli oppressi è un processo collettivo, la comunità dei poveri è il migliore destinatario per ricevere la Bibbia come parola di liberazione. Inoltre, poiché i testi biblici sono stati scritti per comunità, la lettura della Bibbia è affidata in primo luogo proprio a comunità. La Parola di Dio è pienamente attuale, grazie soprattutto alla capacità che possiedono alcuni “eventi fondatori” (l’uscita dall’Egitto, la passione e la risurrezione di Gesù) di suscitare nuove realizzazioni nel corso della storia.
La teologia della liberazione comprende elementi il cui valore è indiscusso: il senso profondo della presenza di Dio che salva; l’insistenza sulla dimensione comunitaria della fede; l’urgenza di una prassi liberatrice radicata nella giustizia e nell’amore; una rilettura della Bibbia che cerca di fare della Parola di Dio la luce e il nutrimento del popolo di Dio in mezzo alle sue lotte e alle sue speranze. Viene così sottolineata la piena attualità del testo ispirato.
Ma una lettura così impegnata della Bibbia comporta certi rischi. Essendo legata a un movimento in piena evoluzione, le osservazioni che seguono non possono che essere provvisorie.
Questo tipo di lettura si concentra su testi narrativi e profetici che illuminano situazioni di oppressione e ispirano una prassi che tende a un cambiamento sociale; è possibile che sia, qua o là, parziale, non prestando altrettanta attenzione ad altri testi della Bibbia. È esatto che l’esegesi non può essere neutra, ma deve anche guardarsi dall’essere unilaterale. D’altra parte, l’impegno sociale e politico non è compito diretto dell’esegeta.
Alcuni teologi ed esegeti, volendo inserire il messaggio biblico nel contesto socio-politico, sono stati portati a ricorrere a vari strumenti di analisi della realtà sociale. In questa prospettiva alcune correnti della teologia della liberazione hanno fatto un’analisi ispirata a dottrine materialiste e hanno letto la Bibbia anche in questa cornice, il che non ha mancato di suscitare problemi, specialmente per ciò che concerne il principio marxista della lotta di classe.
Sotto la spinta di enormi problemi sociali, l’accento è stato messo di più su un’escatologia terrena, talvolta a detrimento della dimensione escatologica trascendente della Scrittura. I cambiamenti sociali e politici conducono questo approccio a porsi nuovi interrogativi e a cercare nuovi orientamenti. Per il suo sviluppo ulteriore e la sua fecondità nella Chiesa, un fattore decisivo sarà la precisazione dei suoi presupposti ermeneutici, dei suoi metodi e della sua coerenza con la fede e la Tradizione di tutta la Chiesa.
2. Approccio femminista
L’ermeneutica biblica femminista è nata verso la fine del XIX secolo negli Stati Uniti, nel contesto socio-culturale della lotta per diritti della donna, con il comitato di revisione della Bibbia, che produsse The Woman’s Bible in due volumi (New York 1885, 1898). Questa corrente si è manifestata con un nuovo vigore ed ha avuto un enorme sviluppo a partire dagli anni settanta, in stretto legame con il movimento della liberazione della donna, soprattutto nell’America del nord. Propriamente parlando, è necessario distinguere diverse ermeneutiche bibliche femministe, perché gli approcci utilizzati sono molto differenti. La loro unità proviene dal tema comune, la donna, e dallo scopo perseguito: la liberazione della donna e la conquista di diritti uguali a quelli dell’uomo.
È il caso di menzionare qui tre forme principali dell’ermeneutica biblica femminista: la forma radicale, la forma neo-ortodossa e la forma critica. La forma radicale rifiuta completamente l’autorità della Bibbia, sostenendo che essa è stata prodotta da uomini allo scopo di assicurare il dominio dell’uomo sulla donna (androcentri
La forma neo-ortodossa accetta la Bibbia come profetica e suscettibile di essere utile, nella misura in cui essa si schiera dalla parte dei deboli e quindi anche della donna; questo orientamento è adottato come «canone nel canone», per mettere in luce tutto ciò che è in favore della liberazione della donna e dei suoi diritti.
La forma critica utilizza una metodologia sottile e cerca di riscoprire la posizione e il ruolo della donna cristiana nel movimento di Gesù e nelle chiese paoline. In quell’epoca si sarebbe adottato l’egualitarismo. Ma questa situazione sarebbe stata mascherata, in gran parte, negli scritti del Nuovo Testamento e ancora di più in seguito, essendo progressivamente prevalso il patriarcato e l’androcentrismo.
L’ermeneutica femminista non ha elaborato un metodo nuovo. Si serve dei metodi correnti in esegesi, specialmente di quello storico-critico. Ma aggiunge due criteri di ricerca.
Il primo è il criterio femminista, che si ispira al movimento di liberazione della donna, sulla scia del più generale movimento della teologia della liberazione. Esso utilizza un’ermeneutica del sospetto: siccome la storia è stata regolarmente scritta dai vincitori, è opportuno, per scoprire la verità, non fidarsi dei testi ma cercare in essi degli indizi che rivelino qualcosa di diverso.
Il secondo criterio è sociologico; si basa sullo studio delle società dei tempi biblici, della loro stratificazione sociale e della posizione che occupava in esse la donna.
Per quanto concerne gli scritti neotestamentari, l’oggetto dello studio non è, in definitiva, la concezione della donna espressa nel Nuovo Testamento, ma la ricostruzione storica di due situazioni diverse della donna nel I secolo: quella abituale nella società ebraica e greco-romana e quella, innovatrice, istituita nel movimento di Gesù e nelle chiese paoline, dove si sarebbe formata «una comunità di discepoli di Gesù, tutti uguali». Uno dei testi invocati a fondamento di questa visione delle cose è Gal 3, 28. L’obiettivo è quello di riscoprire per il presente la storia dimenticata del ruolo della donna nella Chiesa delle origini.
Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi femminista. Le donne hanno preso così una parte più attiva nella ricerca esegetica; sono riuscite a percepire, spesso meglio degli uomini, la presenza, il significato e il ruolo della donna nella Bibbia, nella storia delle origini cristiane e nella Chiesa. L’orizzonte culturale moderno, grazie alla sua più grande attenzione alla dignità della donna e al suo ruolo nella società e nella Chiesa, fa sì che si pongano al testo biblico nuovi interrogativi, occasioni di nuove scoperte. La sensibilità femminile porta a svelare e a correggere alcune interpretazioni correnti, che erano tendenziose e miravano a giustificare il dominio dell’uomo sulla donna.
Per quanto concerne l’Antico Testamento, molti studi si sono sforzati di arrivare a una migliore comprensione dell’immagine di Dio. Il Dio della Bibbia non è la proiezione di una mentalità patriarcale. È Padre, ma è anche Dio di tenerezza e di amore materni.
Nella misura in cui l’esegesi femminista si basa su un partito preso, corre il rischio di interpretare i testi biblici in modo tendenzioso e quindi impugnabile. Per provare le sue tesi deve ricorrere spesso, in mancanza di meglio, ad argomenti ex silentio. Questi, com’è noto, sono poco attendibili e non possono mai essere sufficienti a stabilire solidamente una conclusione. D’altra parte, il tentativo fatto per ricostruire, grazie a labili indizi individuati nei testi, una situazione storica che si ritiene questi stessi testi abbiano voluto nascondere, non corrisponde più a un lavoro di esegesi propriamente detto, poiché porta al rifiuto del contenuto dei testi ispirati per preferire loro una ricostruzione ipotetica diversa.
L’esegesi femminista solleva spesso il problema del potere nella Chiesa, che, com’è noto, è oggetto di discussioni e anche di scontri. In questo campo, l’esegesi femminista potrà essere utile alla Chiesa solo nella misura in cui non cadrà nelle stesse trappole che essa denuncia e non perderà di vista l’insegnamento evangelico sul potere come servizio, insegnamento rivolto da Gesù a tutti i discepoli, uomini e donne.[2]
F. Lettura fondamentalista
La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, dev’essere letta e interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per “interpretazione letterale” essa intende un’interpretazione primaria, letteralista, che esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e de suo sviluppo. Si oppone perciò all’utilizzazione del metodo storico-critico per l’interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico.
La lettura fondamentalista ha avuto la sua origine, all’epoca della Riforma, da una preoccupazione di fedeltà al senso letterale della Scrittura. Dopo il secolo dei lumi, essa si è presentata, nel protestantesimo, come una salvaguardia contro l’esegesi liberale. Il termine “fondamentalista” si ricollega direttamente al Congresso Biblico Americano tenutosi a Niagara, nello stato di New York ne 1895. Gli esegeti protestanti conservatori definirono allora «cinque punti del fondamentalismo»: l’inerranza verbale della Scrittura, la divinità di Cristo, la sua nascita verginale, la dottrina dell’espiazione vicaria e la risurrezione corporale in occasione della seconda venuta di Cristo. Quando la lettura fondamentalista si propagò in altre parti del mondo, diede vita ad altri tipi di lettura ugualmente “letteralisti”, in Europa, Asia, Africa e America Latina. Questo genere di lettura trova sempre più numerosi aderenti nel corso dell’ultima parte del XX secolo, in alcuni gruppi religiosi e sette e anche tra i cattolici.
Benché il fondamentalismo abbia ragione di insistere sull’ispirazione divina della Bibbia, sull’inerranza della Parola di Dio e sulle altre verità bibliche incluse nei cinque punti fondamentali, il suo modo di presentare queste verità si radica in una ideologia che non è biblica, checché ne dicano i suoi rappresentanti. Infatti essa esige una adesione ferma e sicura ad atteggiamenti dottrinali rigidi e impone, come fonte unica d’insegnamento riguardo alla vita cristiana e alla salvezza, una lettura della Bibbia che rifiuti ogni tipo di atteggiamento o ricerca critici.
Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione. Il fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell’umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l’ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca. Non accorda nessuna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi periodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse.
Il fondamentalismo insiste anche in modo indebito sull’inerranza dei dettagli nei testi biblici, specialmente in materia di fatti storici o di pretese verità scientifiche. Spesso storicizza ciò che non aveva alcuna pretesa di storicità, poiché considera come storico tutto ciò che è riferito o raccontato con verbi al passato, senza la necessaria attenzione alla possibilità di un significato simbolico o figurativo.
Il fondamentalismo tende spesso a ignorare o a negare i problemi che il testo biblico comporta nella sua formulazione ebraica aramaica o greca. È spesso strettamente legato a una determinata traduzione, antica o moderna. Omette ugualmente di considerare le “riletture” di alcuni passi all’interno stesso della Bibbia.
Per ciò che concerne i vangeli, il fondamentalismo non tiene conto della crescita della tradizione evangelica, ma confonde ingenuamente lo stadio finale di questa tradizione (ciò che gli evangelisti hanno scritto) con lo stadio iniziale (le azioni e le parole del Gesù della storia). Viene trascurato nello stesso tempo un dato importante: il modo in cui le stesse prime comunità cristiane compresero l’impatto prodotto da Gesù di Nazaret e dal suo messaggio. Invece abbiamo lì una testimonianza dell’origine apostolica della fede cristiana e la sua diretta espressione.
Il fondamentalismo snatura così l’appello lanciato dal vangelo stesso. Il fondamentaporta inoltre a una grande ristrettezza di vedute: ritiene infatti come conforme alla realtà, perché la si trova espressa nella Bibbia, una cosmologia antica superata, il che impedisce il dialogo con una concezione più aperta dei rapporti tra cultura e fede. Si basa su una lettura non critica di alcuni testi della Bibbia per confermare idee politiche e atteggiamenti sociali segnati da pregiudizi, per esempio razzisti, del tutto contrari al vangelo cristiano.
Infine, nel suo attaccamento al principio del “sola Scrittura”, il fondamentalismo separa l’interpretazione della Bibbia dalla Tradizione guidata dallo Spirito, che si sviluppa in modo autentico in unione con la Scrittura in seno alla comunità di fede. Gli manca la consapevolezza che il Nuovo Testamento si è formato all’interno della Chiesa cristiana e che è Sacra Scrittura di questa Chiesa, la cui esistenza ha preceduto la composizione dei suoi testi. Per questa ragione, il fondamentalismo è spesso antiecclesiale, ritenendo come trascurabili i credo, i dogmi e le pratiche liturgiche che sono diventate parte della tradizione ecclesiastica, così come la funzione di insegnamento della Chiesa stessa. Si presenta come una forma di interpretazione privata, la quale non riconosce che la Chiesa è fondata sulla Bibbia e attinge la sua vita e la sua ispirazione nelle Scritture.
L’approccio fondamentalista è pericoloso, perché attira le persone che cercano risposte bibliche ai loro problemi di vita. Tale approccio può includerle offrendo interpretazioni pie ma illusorie, invece di dire loro che la Bibbia non contiene necessariamente una risposta immediata a ciascuno di questi problemi. Il fondamentalismo invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero. Mette nella vita una falsa certezza, poiché confonde inconsciamente i limiti umani del messaggio biblico con la sostanza divina dello stesso messaggio.
QUESTIONI DI ERMENEUTICA
A. Ermeneutiche filosofiche
Il cammino dell’esegesi è chiamato a essere ripensato tenendo conto dell’ermeneutica filosofica contemporanea, che ha messo in evidenza l’implicazione della soggettività nella conoscenza, specialmente nella conoscenza storica. La riflessione ermeneutica ha acquistato nuovo slancio con la pubblicazione dei lavori di Friedrich Schleiermacher, Wilhelm Dilthey e, soprattutto, Martin Heidegger. Sulla scia di queste filosofie, ma anche allontanandosi da esse, diversi autori hanno approfondito la teoria ermeneutica contemporanea e le sue applicazioni alla Scrittura. Tra essi menzioneremo in particolare Rudolf Bultmann, Hans Georg Gadamer e Paul Ricoeur. Non è possibile riassumere qui il loro pensiero; sarà sufficiente indicare alcune idee centrali della loro filosofia che hanno un’incidenza sull’interpretazione dei testi biblici.[3]
1. Prospettive moderne
Costatando la distanza culturale tra il mondo del I secolo e quello del ventesimo, e preoccupato di far sì che la realtà di cui parla la Scrittura parli all’uomo contemporaneo, Bultmann ha insistito sulla precomprensione necessaria a ogni comprensione e ha elaborato la teoria dell’interpretazione esistenziale degli scritti del Nuovo Testamento. Basandosi sul pensiero di Heidegger, egli afferma che l’esegesi di un testo biblico non è possibile senza alcuni presupposti che ne guidino la comprensione. La precomprensione (Vorverstandnis) è fondata su un rapporto vitale (Leben verhaltnis) dell’interprete con la cosa di cui parla il testo. Per evitare il soggettivismo, è tuttavia necessario che la precomprensione si lasci approfondire e arricchire, e perfino modificare e correggere, da ciò di cui parla il testo.
Interrogandosi sulla corretta concettualità che definirebbe le domande a partire dalle quali i testi della Scrittura potrebbero essere compresi dall’uomo di oggi, Bultmann pretende di trovare la risposta nell’analitica esistenziale di Heidegger. Gli esistenziali heideggeriani avrebbero una portata universale e offrirebbero le strutture e i concetti più appropriati per la comprensione dell’esistenza umana rivelata nel messaggio del Nuovo Testamento.
Gadamer sottolinea ugualmente la distanza storica tra il testo e il suo interprete. Egli riprende e sviluppa la teoria del circolo ermeneutico. Le anticipazioni e i preconcetti che segnano la nostra comprensione provengono dalla tradizione che ci sostiene. Questo consiste in un insieme di dati storici e culturali, che costituiscono il nostro contesto vitale, il nostro orizzonte di comprensione. L’interprete ha il dovere di entrare in dialogo con la realtà di cui si parla nel testo. La comprensione si opera nella fusione degli orizzonti differenti del testo e del suo lettore (Horizon) ed è possibile solo se c’è un’appartenenza (Zugehörigkeit) cioè un’affinità fondamentale tra l’interprete e il suo oggetto. L’ermeneutica è un processo dialettico: la comprensione di un testo sempre una comprensione più ampia di sé.
Del pensiero ermeneutico di Ricoeur, bisogna innanzi tutto sottolineare il risalto dato alla funzione di distanziamento come preliminare necessario a una giusta appropriazione del testo. Una prima distanza esiste tra il testo e il suo autore, poiché, una volta prodotto, il testo acquista una certa autonomia in rapporto al suo autore; inizia un percorso di significato. Un’altra distanza esiste tra il testo e i suoi lettori successivi; questi devono rispettare il mondo del testo nella sua alterità. I metodi di analisi letteraria e storica sono perciò necessari all’interpretazione. Tuttavia il significato di un testo può essere dato pienamente solo se viene attualizzato nel vissuto dei lettori che se ne appropriano. A partire dalla loro situazione, questi sono chiamati a far emergere significati nuovi, in linea con il senso fondamentale indicato dal testo. La conoscenza biblica non deve fermarsi al linguaggio, ma cerca di raggiungere la realtà di cui parla il testo. Il linguaggio religioso della Bibbia è un linguaggio che “fa pensare”, un linguaggio di cui non si cessa di scoprire le ricchezze di significato, un linguaggio che ha di mira una realtà trascendente e che, nello stesso tempo, rende la persona umana conscia della dimensione profonda del suo essere.
2. Utilità per l’esegesi
Che dire di queste teorie contemporanee dell’interpretazione dei testi? La Bibbia è Parola di Dio per tutte le epoche che si succedono nella storia. Di conseguenza non si può ignorare una teoria ermeneutica che permette di incorporare i metodi di critica letteraria e storica in un modello di interpretazione più ampia. Si tratta di superare la distanza tra il tempo degli autori e dei primi destinatari dei testi biblici e la nostra epoca contemporanea, in modo da attualizzare correttamente il messaggio dei testi per nutrire la vita di fede dei cristiani. Ogni esegesi dei testi è chiamata a essere completata da un’“ermeneutica”, nel senso recente del termine.
La necessità di un’ermeneutica, cioè di un’interpretazione nell’oggi del nostro mondo, trova un fondamento nella Bibbia stessa e nella storia della sua interpretaL’insieme degli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento si presenta come il prodotto di un lungo processo di reinterpretazione degli eventi fondatori, in stretto legame con la vita delle comunità dei credenti. Nella tradizione ecclesiale, i primi interpreti della Scrittura, i padri della Chiesa, pensavano che la loro esegesi dei testi fosse completa solo se ne facevano emergere il significato per i cristiani del loro tempo nella loro situazione. Si è fedeli all’intenzionalità dei testi biblici solo nella misura in cui si cerca di ritrovare, nel cuore della loro formulazione, la realtà di fede che essi esprimono e se si collega questa realtà con l’esperienza credente del nostro mondo.
L’ermeneutica contemporanea è una sana reazione al positivismo storico e alla tentazione di applicare allo studio della Bibbia i criteri di oggettività utilizzati nelle scienze naturali. Da una parte, gli eventi riportati nella Bibbia sono eventi interpretati; dall’altra, ogni esegesi dei racconti di questi eventi implica necessariamente la soggettività dell’esegeta. La giusta conoscenza del testo biblico è accessibile solo a colui che ha un’affinità vissuta con ciò di cui parla il testo. La domanda che si pone a ogni interprete è la seguente: quale teoria ermeneutica rende possibile una corretta comprensione della realtà profonda di cui parla la Scrittura e una sua espressione che abbia significato per l’uomo di oggi?
Bisogna riconoscere, in effetti, che alcune teorie ermeneutiche sono inadeguate per interpretare la Scrittura. Per esempio, l’interpretazione esistenziale di Bultmann porta a racchiudere il messaggio cristiano nei limiti di una filosofia particolare. Inoltre, in virtù dei presupposti che sono alla base di questa ermeneutica, il messaggio religioso della Bibbia è svuotato in gran parte della sua realtà oggettiva (a causa di una eccessiva “demitizzazione”) e tende a subordinarsi a un messaggio antropologiLa filosofia diventa norma di interpretazione piuttosto che strumento di comprensione di ciò che è l’oggetto centrale di ogni interpretazione: la persona di Gesù Cristo e gli eventi di salvezza compiuti nella nostra storia. Un’autentica interpretazione della Scrittura è quindi prima di tutto accoglienza di un significato dato in alcuni eventi e, in modo eminente, nella persona di Gesù Cristo.
Tale significato è espresso nei testi. Per evitare il soggettivismo, è perciò necessario che una buona attualizzazione sia fondata sullo studio del testo e i presupposti di lettura siano costantemente verificati sul testo.
L’ermeneutica biblica, anche se fa parte dell’ermeneutica generale di ogni testo letterario e storico, è al contempo un caso unico di questa ermeneutica. I suoi caratteri specifici le vengono dal suo oggetto. Gli eventi di salvezza e il loro compimento nella persona di Gesù Cristo danno senso a tutta la storia umana. Le interpretazioni storiche nuove potranno essere solo uno svelamento o una esposizione di queste ricchezze di significato. Il racconto biblico di questi eventi non può essere compreso pienamente dalla sola ragione. La sua interpretazione dev’essere guidata da alcuni presupposti particolari, quali la fede vissuta in comunità ecclesiale e la luce dello Spirito. Con la crescita della vita nello Spirito cresce anche, nel lettore, la comprensione delle realtà di cui parla il testo biblico.
B. Sensi della Scrittura ispirata
Il contributo moderno delle ermeneutiche filosofiche e gli sviluppi recenti dello studio scientifico delle letterature permettono all’esegesi biblica di approfondire la comprensione del suo compito, la cui complessità è diventata più evidente. L’esegesi antica, che non poteva evidentemente prendere in considerazione le esigenze scientifiche moderne, attribuiva a ogni testo della Scrittura diversi livelli di significato. La distinzione più corrente era quella tra senso letterale e senso spirituale. L’esegesi medievale distinse nel senso spirituale tre aspetti differenti, in rapporto, rispettivamente, con la verità rivelata, il comportamento da seguire e il compimento finale. Da lì il celebre distico di Agostino di Danimarca (XIII sec.): «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quid speres anagogia».
Come reazione contro questa molteplicità di significati, l’esegesi storico-critica ha adottato, più o meno apertamente, la tesi dell’unicità di significato, secondo la quale un testo non può avere simultaneamente diversi significati. Tutto lo sforzo dell’esegesi storico-critica è quello di definire il significato preciso di un dato testo biblico nelle circostanze in cui fu composto. Ma questa tesi si scontra ora con le conclusioni delle scienze del linguaggio e delle ermeneutiche filosofiche, che affermano la polisemia dei testi scritti.
Il problema non è semplice e non si pone allo stesso modo per tutti i generi di testi: racconti storici, parabole, oracoli, leggi, proverbi, preghiere, inni, ecc. È tuttavia possibile presentare alcun principi, sempre tenendo conto della diversità delle opinioni.
1. Senso letterale
Non è solo legittimo, ma indispensabile cercare di definire il significato preciso dei testi come sono stati composti dai loro autori significato che è chiamato “letterale”. Già san Tommaso d’Aquino ne affermava l’importanza fondamentale (S. Th., I, q. 1, a. 10, ad 1).
Il senso letterale non è da confondere col senso “letteralistico”, sul quale si basano i fondamentalisti. Non è sufficiente tradurre il testo parola per parola per ottenere il suo senso letterale. È necessario comprenderlo secondo le convenzioni letterarie del tempo. Quando un testo è metaforico, il suo senso letterale non è quello che risulta dal significato immediato delle parole (per esempio: «Abbiate la cintura ai fianchi», Lc 12, 35), ma quello che corrisponde all’uso metaforico dei termini («Abbiate un atteggiamento di disponibilità»). Quando si tratta di un racconto, il senso letterale non comporta necessariamente l’affermazione che i fatti raccontati siano effettivamente accaduti; infatti un racconto può non appartenere al genere storico, ma essere frutto di immaginazione.
Il senso letterale della Scrittura è quello espresso direttamente dagli autori umani ispirati. Essendo frutto dell’ispirazione, questo senso è voluto anche da Dio, autore principale. Lo si discerne grazie a un’analisi precisa del testo, situato nel suo contesto letterario e storico. Il compito principale dell’esegesi è proprio quello di condurre a questa analisi, utilizzando tutte le possibilità delle ricerche letterarie e storiche, al fine di definire il senso, letterale dei testi biblici con la maggiore esattezza possibile (Divino afflante Spiritu, EB 550). Per tale scopo, lo studio dei generi letterari antichi è particolarmente necessario (ibid. 560).
Il senso letterale di un testo è unico? In generale, sì; ma non si tratta di un principio assoluto, e questo per due ragioni. Da una parte, un autore umano può voler riferirsi nello stesso tempo a più livelli di realtà. Il caso è corrente in poesia. L’ispirazione biblica non disdegna questa possibilità della psicologia e del linguaggio umani; il quarto vangelo ne fornisce numerosi esempi. D’altra parte, anche quando un’espressione umana sembra avere un solo significato, l’ispirazione divina può guidare l’espressione in modo da produrre un’ambivalenza. Tale è il caso dell’espressione di Caifa in Gv 11, 50. Essa esprime al tempo stesso un calcolo politico immorale e una rivelazione divina. Questi due aspetti appartengono l’uno e l’altro al senso letterale, perché sono entrambi messi in evidenza dal contesto. Anche se estremo, questo caso è significativo e deve mettere in guardia contro una concezione troppo ristretta del senso letterale dei testi ispirati.
Conviene, in particolare, essere attenti all’aspetto dinamico di molti testi. Il senso dei salmi regali, per esempio, non dev’essere limitato strettamente alle circostanze storiche della loro produzione Parlando del re, il salmista evocava al tempo stesso un’istituzione reale e una visione ideale della monarchia, conforme al disegno di Dio, in modo che il suo testo andava al di là dell’istituzione monarchica come si era manifestata nella storia. L’esegesi storico-critica ha avuto troppo spesso la tendenza a limitare il senso de testi, collegandolo esclusivamente a precise circostanze storiche. Essa deve piuttosto cercare di precisare la direzione di pensiero espressa dal testo, direzione che, invece di invitare l’esegeta a limitare il senso, gli suggerisce al contrario di percepirne i prolungamenti più o meno prevedibili.
Una corrente dell’ermeneutica moderna ha sottolineato la differenza di situazione che colpisce la parola umana quando viene messa per iscritto. Un testo scritto ha la capacità di essere collocato in nuove circostanze, che lo illuminano in modi diversi, aggiungendo al suo significato nuove determinazioni. Questa capacità del testo scritto è effettiva specialmente nel caso dei testi biblici, riconosciuti come Parola di Dio. In effetti, ciò che ha spinto la comunità credente a conservarli è stata la convinzione che avrebbero continuato a essere portatori di luce e di vita per le generazioni future. Il senso letterale è, fin dall’inizio, aperto a sviluppi ulteriori, che si producono grazie a “riletture” in contesti nuovi.
Non ne consegue che è possibile attribuire a un testo biblico qualsiasi significato, interpretandolo in modo soggettivo. Al contrario, è necessario respingere come inautentica ogni interpretazione che fosse eterogenea rispetto al senso espresso dagli autori umani nel loro testo scritto. Ammettere dei significati eterogenei equivarrebbe a togliere al messaggio biblico le sue radici, che sono la Parola di Dio comunicata storicamente, e ad aprire la porta a un soggettivismo incontrollabile.
2. Senso spirituale
Non è il caso, tuttavia, di prendere “eterogeneo” nel senso stretto, contrario a ogni possibilità di compimento superiore. L’evento pasquale, morte e risurrezione di Gesù, ha fissato un contesto storico radicalmente nuovo, che illumina in modo nuovo i testi antichi e fa subire loro un cambiamento di significato. In particolare, alcuni testi che, nelle circostanze antiche, dovevano essere considerati come delle iperbole (per es., l’oracolo in cui Dio, parlando di un figlio di Davide, prometteva di rendere stabile per sempre il suo trono: 2Sam 7, 12-13; 1Cr 17, 11-14), questi testi devono ora essere presi alla lettera, perché «il Cristo, essendo risorto dai morti, non muore più» (Rm 6, 9). Gli esegeti che hanno una nozione limitata, “storicistica”, del senso letterale riterranno che ci sia qui eterogeneità. Quelli che sono aperti all’aspetto dinamico dei testi riconosceranno una continuità profonda e nello stesso tempo il passaggio a un livello differente: il Cristo regna per sempre, ma non sul trono terreno di Davide (cf. anche Sal 2, 7-8; 110, 1.4).
In casi di questo genere si parla di “senso spirituale”. Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito.
Dalla definizione data si possono trarre parecchie precisazioni utili sul rapporto tra senso spirituale e senso letterale. Contrariamente a un’opinione corrente, non c’è necessariamente distinzione tra questi due sensi. Quando un testo biblico si riferisce direttamente al mistero pasquale di Cristo o alla vita nuova che ne risulta, il suo senso letterale è un senso spirituale. Ed è il caso abituale nel Nuovo Testamento. Ne consegue che l’esegesi cristiana parla il più delle volte di senso spirituale a proposito dell’Antico Testamento. Ma già nell’Antico Testamento i testi hanno in molti casi come senso letterale un senso religioso e spirituale. La fede cristiana vi riconosce un rapporto anticipato con la vita nuova apportata da Cristo.
Quando c’è una distinzione, il senso spirituale non può mai essere privato dei rapporti con il senso letterale che ne rimane la base indispensabile; diversamente, non si potrebbe parlare di “compimento” della Scrittura. In effetti, perché si possa parlare di compimento è essenziale un rapporto di continuità e di conformità. Ma è anche necessario che ci sia un passaggio a un livello superiore di realtà.
Il senso spirituale non è da confondere con le interpretazioni soggettive dettate dall’immaginazione o dalla speculazione intellettuale. Esso scaturisce dalla relazione del testo con certi dati reali che non gli sono estranei, l’evento pasquale e la sua inesauribile fecondità, che costituiscono il vertice dell’intervento divino nella storia di Israele, a vantaggio di tutta l’umanità.
La lettura spirituale, fatta comunitariamente o individualmente, scopre un senso spirituale autentico solo se si mantiene in queste prospettive. Vengono allora messi in relazione tre livelli di realtà: il testo biblico, il mistero pasquale e le circostanze presenti di vita nello Spirito.
L’esegesi antica, persuasa che il mistero del Cristo costituisca la chiave interpretativa di tutte le Scritture, si è sforzata di trovare un senso spirituale nei più piccoli dettagli dei testi biblici, per esempio, in ogni prescrizione delle leggi rituali, servendosi di metodi rabbinici o ispirandosi all’allegorismo ellenistico. L’esegesi moderna non può accordare un vero valore d’interpretazione a questo genere di tentativi, qualunque possa essere stata, nel passato, la loro utilità pastorale (cf. Divino afflante Spiritu, EB 553).
Uno degli aspetti possibili del senso spirituale è quello tipologico, di cui si dice abitualmente che non appartiene alla Scrittura stessa, ma alle realtà espresse dalla Scrittura: Adamo figura del Cristo (cf. Rm 5, 14), il diluvio figura del battesimo (1 Pt 3, 20-21), ecc. In effetti, il rapporto di tipologia è ordinariamente basato sul modo in cui la Scrittura descrive la realtà antica (cf. la voce di Abele: Gn 4, 10; Eb 11, 4; 12, 24) e non semplicemente su questa realtà. Di conseguenza, si tratta allora proprio di un senso della Scrittura.
3. Senso pieno
Relativamente recente, l’appellativo “senso pieno” (sensus plenior) suscita delle discussioni. Si definisce il senso pieno come un senso più profondo del testo, voluto da Dio, ma non chiaramente espresso dall’autore umano. Se ne scopre l’esistenza in un test biblico quando viene studiato alla luce di altri testi biblici che lo utilizzano o nel suo rapporto con lo sviluppo interno della rivelazione.
Si tratta allora o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo biblico a lui anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce un senso letterale nuovo, o del significato che una tradizione dottrinale autentica o una definizione conciliare da a un testo della Bibbia. Per esempio, il contesto di Mt 1, 23 dà il senso pieno all’oracolo di Is 7, 14 sulla almah che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei Settanta (parthenos): «La vergine concepirà». L’insegnamento patristico e conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell’insegnamento del Nuovo Testamento su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del peccato originale da parte del Concilio di Trento fornisce il senso pieno, dell’insegnamento di Paolo in Rm 5, 12-21 circa le conseguenze del peccato di Adamo per l’umanità. Ma quando manca un controllo di questo genere, da parte di un testo biblico esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, il ricorso a un preteso senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni validità.
In definitiva, si potrebbe considerare il “senso pieno” come un altro modo di designare il senso spirituale di un testo biblico, nel caso in cui il senso spirituale si distingua dal senso letterale. Suo fondamento è il fatto che lo Spirito Santo, autore principale della Bibbia, può guidare l’autore umano nella scelta delle sue espressioni in modo tale che queste esprimano una verità di cui egli non percepisce tutta la profondità. Questa viene rivelata in modo più completo nel corso del tempo, grazie, da una parte, a ulteriori realizzazioni divine che manifestano meglio la portata dei testi, e grazie anche, d’altra parte, all’inserimento dei testi nel canone delle Scritture. In questo modo viene creato un nuovo contesto, che fa apparire delle potenzialità di significato che il contesto primitivo lasciava nell’ombra.
1. Storia del metodo
Continua...