Calvino Giovanni Eresie protestanti calvinismo
Gruppi eretici e dottrine
GIOVANNI CALVINO ERETICO PROTESTANTE
Fu probabilmente l'illusione che il re simpatizzasse con le posizioni riformatrici della sorella Margherita, di Gérard Roussel e di Lefèvre d'Estaples, a spingere il neo-rettore dell'Università parigina, Nicolas Cop, amico di Calvino, ad auspicare, il 1º novembre 1533, nel suo discorso d'inaugurazione del nuovo anno accademico, la riforma della chiesa e a prospettare la dottrina, di famigerata origine luterana, della «giustificazione per sola fede». Lo scandalo fu enorme nell'Università e a corte; destituito dall'incarico il 19 novembre e convocato per giustificarsi dal Parlamento, Cop non si presentò e fuggì da Parigi. La circostanza che anche Calvino lasciasse la capitale in quei giorni, che egli fosse in possesso di una copia del discorso di Cop e la tardiva testimonianza di Teodoro di Bèze, hanno fatto ritenere che il discorso fosse stato scritto da lui,[9] un'ipotesi contestata da chi non rileva nella forma e nella sostanza del documento lo stile e il pensiero di Calvino, il quale, del resto, poche settimane dopo era nuovamente a Parigi, trasferendosi di qui, nel gennaio 1534, nella provincia della Saintonge, vicino Angoulême, presso un discepolo di Lefèvre d'Estaples, il canonico Louis du Tillet, rettore di Claix, uomo di non tranquilla fede cattolica e di posati studi teologici, come testimonia la sua ricca biblioteca.
Margherita d'Angoulême ritratta da Jean Clouet, 1527
Qui Calvino scrisse, pubblicandola solo nel 1542, la Psychopannychia, confutazione dell'opinione di origine anabattista che l'anima, con la morte, si addormenti. L'opera è del tutto in linea con l'ortodossia del tempo e, da sé sola, non mostra alcuna adesione a idee riformate, tanto che uno storico cattolico del tempo [10] afferma che in questi anni Calvino si conformava in tutto alla confessione cattolica. Ma probabilmente si trattava ormai di un atteggiamento esteriore di necessaria convenienza: in aprile Calvino era a Nérac, nella corte di Margherita d'Angoulême,[11] luogo di ritrovo di intellettuali che, se non possono essere definiti luterani, erano anche distanti dall'ortodossia cattolica; poche settimane dopo andò a Noyon dove, il 4 maggio 1534, nel Capitolo della cattedrale, rinunciò ai benefici ecclesiastici di cui godeva.[12]
A questa circostanza è legato un oscuro episodio: un editto di Noyon del 26 maggio 1534 attesta che un «Iean Cauvin dict Mudit» fu arrestato per aver disturbato in chiesa la cerimonia della festa della Trinità. Il cognome Cauvin si riscontrava frequentemente nella provincia e il soprannome Mudit non appare mai associato con Giovanni Calvino che, anni dopo, nel 1545, scrisse [13] di «ringraziare Dio» di non essere mai stato in prigione: né sarebbe stato sconveniente, per un riformatore, confessare di aver patito il carcere per la propria fede.
Da Noyon sarebbe andato a Parigi, per avere un incontro con un medico spagnolo, l'«eretico» Michele Serveto, che tuttavia non si presentò; i due s'incontreranno vent'anni dopo, a Ginevra, in diverse e tragiche circostanze; da qui sarebbe andato ancora ad Orléans e a Poitiers.[14]
Il 18 ottobre 1534 scoppiò in Francia lo scandalo dei placards (manifesti): in diversi luoghi della capitale, di altre città della Francia e persino nell'anticamera della stanza da letto di Francesco I, nel castello di Amboise, furono affissi manifesti che denunciavano l'eresia della messa cattolica: secondo Antoine Marcourt, l'ispiratore della clamorosa protesta, è una bestemmia e una profanazione ripetere il sacrificio di Cristo nella messa e pretendere che il suo corpo sia presente nell'ostia, perché egli fu in realtà crocefisso storicamente una volta sola e ora siede in cielo alla destra di Dio, come afferma l'autore della Lettera agli Ebrei.
La reazione delle istituzioni ecclesiastiche e dello stesso re fu violenta: mettere in discussione una tradizione ormai millenaria e radicata nelle coscienze, sembrava voler scalzare alle radici non solo tutta la confessione cattolica, i valori del sacerdozio e l'autorità papale, ma le basi stesse dello Stato che anche su quelle tradizioni trae giustificazione e appoggio. Nel gennaio 1535 il re e la corte invocarono il perdono divino con una penitente processione per le strade di Parigi, ma non trascurarono di accendere roghi e innalzare patiboli; in tutta la Francia furono decine le vittime della repressione e migliaia coloro che, già critici o dubbiosi, scelsero il silenzio o l'esilio. Fra questi ultimi fu Calvino che, preso il nome di Martinus Lucianus - anagramma di Caluinus - insieme con Louis du Tillet, passando per Strasburgo, prese la strada di Basilea.
Basilea era già una città riformata di lingua tedesca, rifugio di numerosi evangelici o dissidenti religiosi di diversi paesi europei, da Celio Secondo Curione a Elie Couraud, da Guglielmo Farel a Pierre Viret, da Giovanni Ecolampadio a Pierre Caroli, da Claude de Feray a Pierre Toussaint e a Erasmo, qui giunto nel maggio 1535 per morirvi l'anno dopo.[15] Si dice che Calvino abbia revisionato la versione francese della Bibbia tradotta dall'Olivetano, stampata a Neuchâtel in quello stesso anno da Pierre de Vingle, il tipografo dei placards e che ne sia stato l'autore della prefazione, dove non interpreta, secondo la tradizione, il Vecchio Testamento come preparazione al messaggio del Nuovo, ma Vecchio e Nuovo Testamento come un'unica manifestazione della parola di Dio, rimanendo Cristo il centro della rivelazione.
Fu a Basilea che Calvino portò a termine, nell'agosto del 1535, la prima edizione di quella che resta la sua opera più significativa e una delle migliori, se non la migliore, per chiarezza e precisione di espressione, di tutta la Riforma: la Institutio christianae religionis. Scritta in latino e pubblicata nel marzo 1536 con una lettera di dedica a Francesco I, nella quale Calvino difende l'evangelismo dalle accuse dei suoi nemici, comprendeva soltanto sei capitoli; nel 1539 conobbe una seconda versione, pubblicata a Strasburgo, ampliata a diciassette capitoli, che conobbe una traduzione francese nel 1541, di mano dello stesso Calvino, e con diverse modifiche rispetto alla precedente. Una terza edizione latina, pubblicata ancora a Strasburgo nel 1543, raggiunse i ventun capitoli e conobbe una traduzione francese, comparsa a Ginevra nel 1545. Dopo aver cercato di dare una struttura più organica alla materia nell'edizione successiva del 1550 - dalla quale fu tratta la prima versione il lingua italiana, pubblicata a Ginevra nel 1557 - Calvino rifuse tutta la materia, pubblicando a Ginevra l'edizione definitiva nel 1559 e la traduzione francese nel 1560, così che l'opera si presenta ora divisa in quattro libri di ottanta capitoli complessivi.[16]
I libro: la conoscenza di Dio [modifica]
Il I libro si apre con l'affermazione che «Quasi tutta la somma della nostra sapienza [...] si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso»: poiché dal sentimento della nostra limitatezza «siamo condotti a riconoscere che in Dio solamente c'è vera luce di saggezza, forza stabile, ricchezza di ogni bene, purezza di giustizia», deriva che «la conoscenza di noi stessi [...] non solo ci stimola a conoscere Dio, ma anzi deve guidarci, quasi per mano, a trovarlo» (I, 1, 1).
Stabilito come vi sia «un legame reciproco tra la conoscenza di Dio e quella di noi stessi e l'una sia in relazione con l'altra» (I, 1, 3), Calvino afferma che la conoscenza di Dio è innata: tutti gli uomini hanno «in sé, per naturale sentimento, una percezione della divinità» (I, 3, 1) anche quando questo «germe di religione» degeneri in idolatria. La religione non è dunque l'invenzione «di alcuni furbi per mettere la briglia al popolo semplice» anche se ammette che uomini «astuti e abili hanno inventato non poche corruzioni per attirare il popolino a forme di insensata devozione e per spaventarlo onde divenisse più malleabile» (I, 3, 2). Se «la sua essenza è incomprensibile e la sua maestà nascosta, ben lontano da tutti i nostri sensi», se pure Dio si manifesta tuttavia attraverso la creazione che è «una esposizione o manifestazione delle realtà invisibili» (I, 5, 1), «sebbene la maestà invisibile di Dio sia manifestata in questo specchio, noi tuttavia non abbiamo gli occhi per contemplarla finché non siamo illuminati dalla rivelazione segreta dataci dall'alto» (I, 5, 13).
Calvino considerava una superstizione la venerazione delle immagini
Si conosce Dio in modo retto solo attraverso la Scrittura, in quanto in essa viene conosciuto «non solo come creatore del mondo avente autorità e responsabilità su tutto ciò che accade, ma anche come redentore nella persona del nostro Signore Gesù Cristo» (I, 6, 1). Ma chi garantisce della autenticità della Scrittura, «che sia pervenuta sana e intera fino al nostro tempo? Chi ci persuaderà ad accettare un libro e respingerne un altro senza contraddizione?» (I, 7, 1). Non è la Chiesa ad avere «il diritto di giudizio sulla Scrittura, come se ci si dovesse tenere a quello che gli uomini hanno stabilito per sapere se è parola di Dio oppure no» perché questa, come afferma Paolo (Ef. 2, 20), è fondata sugli apostoli e sui profeti e dunque se «il fondamento della Chiesa è rappresentato dalla dottrina che ci hanno lasciata i profeti e gli apostoli, occorre che tale dottrina risulti certa prima che la Chiesa cominci ad esistere» (I, 7, 2). Solo Dio stesso è testimone di se stesso e la sua parola avrà fede negli uomini solo se «sarà suggellata dalla testimonianza interiore dello Spirito. È necessario dunque che lo stesso Spirito che ha parlato per bocca dei profeti entri nei nostri cuori e li tocchi al vivo onde persuaderli che i profeti hanno fedelmente esposto quanto era loro comandato dall'alto» (I, 7, 4).
Calvino si oppone alla raffigurazione di Dio - «questa grossolana follia si è diffusa fra tutti gli uomini spingendoli a desiderare le immagini visibili per raffigurarsi Dio, infatti se ne sono costruite di legno, di pietra, d'oro, d'argento e di ogni materiale corruttibile» (I, 12, 1) – in quanto espressamente vietata nella Scrittura e già messa in ridicolo persino da antichi scrittori. Anche se Gregorio Magno sostenne che le immagini sono i libri dei semplici, «quello che gli uomini imparano su Dio attraverso le immagini è vano e anche illecito» (I, 12, 5): sarebbe sufficiente riflettere sul fatto che «le prostitute nei loro bordelli sono vestite più modestamente delle immagini della Vergine nei templi dei papisti. Ne più conveniente è l'acconciatura dei martiri» (I, 12, 7) e finire con l'adorare quelle immagini significa cadere nella superstizione.
La Dottrina Calvinista – La dottrina di Giovanni Calvino porta alle estreme conseguenze quella di Martin Lutero, particolarmente per quanto riguarda la predestinazione: l’uomo non può fare nulla per la propria salvezza, perché solo la Grazia di Dio può salvarlo; la Grazia è concessa da Dio prima della nascita solo ad alcuni individui “predestinati”; gli altri qualunque sforzo facciano ne sono irrimediabilmente esclusi.
Giovanni Calvino incitò quindi i suoi seguaci a scoprire a quale delle due categorie facevano parte, aggiungendo che i segni della Grazia divina si manifestano spesso nei fatti concreti della vita quotidiana, quindi nel dovere compiuto, nel lavoro ben eseguito nei campi o nelle botteghe e anche nei successi finanziari in attività come quelle del mercante e del banchiere.
Giovanni Calvino incitò quindi i suoi seguaci a scoprire a quale delle due categorie facevano parte, aggiungendo che i segni della Grazia divina si manifestano spesso nei fatti concreti della vita quotidiana, quindi nel dovere compiuto, nel lavoro ben eseguito nei campi o nelle botteghe e anche nei successi finanziari in attività come quelle del mercante e del banchiere.
Secondo Max Weber (1864-1920), fondatore della sociologia, il calvinismo contribuì allo sviluppo economico che nei secoli successivi caratterizzò numerosi Paesi protestanti, in contrasto con le difficoltà di quelli cattolici.
Per dare vita a questa comunità ideale e fare in modo che i fedeli operassero, come si erano impegnati a fare, Giovanni Calvino ricorse ampiamente agli strumenti della politica per attuare il controllo della religione e della morale. Pertanto, sulla condotta dei cittadini, sulle questioni dottrinali, sulla disciplina ecclesiastica vigilava un apposito organismo, il Concistoro, composto da dodici laici (gli anziani o presbiteri) e da alcuni pastori (da cinque a dieci).
Furono istituiti i diaconi, con compiti amministrativi e di cura per i poveri; e i dottori, con il compito di insegnare nelle scuole e di formare i pastori.
La vita pubblica e privata dei ginevrini fu spazzata via: furono vietati i giochi d’azzardo, gli spettacoli, il lusso, furono chiuse le taverne. Chi non si atteneva a questa ferrea disciplina doveva essere sottoposto ad ammende e punizioni anche molto severe, compreso il rogo.
Furono istituiti i diaconi, con compiti amministrativi e di cura per i poveri; e i dottori, con il compito di insegnare nelle scuole e di formare i pastori.
La vita pubblica e privata dei ginevrini fu spazzata via: furono vietati i giochi d’azzardo, gli spettacoli, il lusso, furono chiuse le taverne. Chi non si atteneva a questa ferrea disciplina doveva essere sottoposto ad ammende e punizioni anche molto severe, compreso il rogo.
Fece scalpore la tortura e l’uccisione sul rogo, come eretico, dello spagnolo Michele Serveto (1511-1553), uno dei più grandi uomini di cultura del tempo e figura di primissimo piano nella storia della scienza moderna (fu scopritore, tra l’altro, della circolazione polmonare del sangue). Già nel corso di uno scambio epistolare, Serveto aveva scandalizzato Calvino proponendogli la posizione antitrinitaria (che fu elaborata nel trattato De Trinitatis erroribus). L’offesa alla trinità era considerata, anche dai protestanti, uno dei delitti più gravi di cui potesse macchiarsi un cristiano. Michele Serveto andò oltre: si recò personalmente a Ginevra per discutere le sue idee e i ginevrini non lo lasciarono ripartire vivo: fu arso sul rogo il 27 ottobre 1553.
Giovanni Calvino continuò a esercitare un notevole influsso sulla città di Ginevra sino alla morte, avvenuta il 27 maggio 1564, erigendola a baluardo del protestantesimo riformato e facendone uno dei più grandi centri della cristianità.
In linea di principio, C. accolse molti punti della dottrina luterana, come la sola scriptura (la fede trova il suo fondamento solamente nella Parola di Dio, la Sacra Scrittura) e la sola fide [l'uomo non può assolutamente concorrere alla propria salvezza: questa non dipende dall'agire umano o dalle sue opere (come, ad esempio le indulgenze), ma si ottiene solo con la fede], ma sostituì la sola gratia (per Sua grazia Dio magnanimo salva l'uomo peccatore attraverso Cristo) con la soli Deo gloria: l'ubbidienza alla volontà di Dio deve essere assoluta, perché Egli è sovrano di tutto il creato e determina il corso degli avvenimenti.
Da questo convincimento derivò la dottrina della predestinazione: Dio, grande ed eterna saggezza, misterioso quindi incomprensibile, ha stabilito che ad alcuni uomini è stata predestinata la vita eterna ed ad altri la dannazione eterna. Ed in particolare alla vita eterna era predestinata, secondo C., la comunità dei santi, di quei fedeli cioè che credevano come un atto di fiducia, che si comportavano rettamente, partecipavano alla vita pubblica, obbedivano alle autorità e desideravano di partecipare alla Santa Cena.
C. inoltre considerò, come Lutero, validi solo i sacramenti del Battesimo e dell'Eucaristia, che erano testimonianza della grazia di Dio, e non solamente cerimonie commemorative, come preteso da Zwingli. Per il Battesimo, con una certa difficoltà, C. riuscì a giustificare il battesimo dei fanciulli, in contrapposizione agli anabattisti e senza dover citare la tradizione storica ed il concetto del peccato originale, base della dottrina cattolica sul battesimo. Per C. le Scritture dicevano Lasciate che i fanciulli vengano a me, e quindi il negare il battesimo ai fanciulli sarebbe stato non riconoscere la misericordia di Dio e un'ingratitudine verso di Lui.
Per quanto riguardò, invece, il dibattito sull'effettiva presenza di Cristo nell'Eucaristia, C. considerò il Sacramento della Comunione come una reale partecipazione alla carne e al sangue di Gesù Cristo, anche se ciò non significava una presenza locale di Cristo nell'Eucaristia, poiché Egli poteva essere solo in cielo. Questa fu un'abile posizione intermedia tra la consustanziazione di Lutero (vi era la reale e sostanziale presenza del corpo e sangue di Cristo nel pane e vino, che tutti i comunicandi ricevevano, che fossero degni o indegni, credenti o miscredenti) e il simbolismo di Zwingli (la Cena del Signore era solo una solenne commemorazione della morte di Cristo, la sua presenza spirituale).
Ciononostante per motivi puramente politici (la posizione di C. a Ginevra era spesso fragile ed egli cercava quindi appoggi esterni), C. firmò il Consensus Tigurinus del 1549, dove non si faceva menzione del termine substantia, per assicurarsi l'aiuto di un prezioso alleato, come Heinrich Bullinger, successore di Zwingli a Zurigo.
Calvino ripropone la dottrina ortodossa della Trinità: Dio «si presenta quale solo Dio e si offre, per essere contemplato, distinto in tre persone» e «affinché nessuno immagini un Dio a tre teste o triplo nella sua essenza, oppure pensi che l'essenza semplice di Dio sia divisa e spartita» (I, 13, 2), chiarendo che per persona occorre intendere ipostasi o sussistenza, «una realtà presente nell'essenza di Dio, in relazione con le altre ma distinta per una proprietà incomunicabile; e questo termine presenza deve essere inteso in un senso diverso da essenza» (I, 13, 6). I termini Padre, Figlio e Spirito indicano una vera distinzione, non sono «appellativi diversi attribuiti a Dio semplicemente per definirlo in diversi modi; tuttavia dobbiamo ricordare che si tratta di una distinzione, non di una divisione» (I, 13, 17).
II libro: la conoscenza di Cristo [modifica]
Trattato di Dio creatore, ora si tratta di Gesù Cristo, il Dio redentore della «nostra misera condizione, sopravvenuta per la caduta di Adamo» (II, 1, 1). Calvino nega valore alla teoria pelagiana «che insegna all'uomo ad aver fiducia in se stesso» (II, 1, 2) e che considera «inverosimile che i bambini nati da genitori credenti ne ricevano corruzione e li considerano invece purificati dalla purezza di questi». Per Calvino, come per Agostino, i genitori «genereranno figli colpevoli perché li generano dalla propria natura viziosa» ed essi possono essere santificati da Dio «non in virtù della loro natura» – resa perversa dal peccato originale e perciò incapaci di salvarsi da sé – «bensì della sua grazia» (II, 1, 7).
Dopo aver analizzato le definizioni di libero arbitrio portate da Cicerone fino a Tommaso d'Aquino, passando per Crisostomo e Bernardo di Chiaravalle, rileva come essi riconoscano «all'uomo il libero arbitrio non perché abbia libera scelta tra il bene e il male, ma perché fa quello che fa volontariamente e non per costrizione. Questo è esatto. È però ridicolo attribuire qualità sì grandiose ad una realtà così fatta. Bella libertà per l'uomo il non essere costretto a servire il peccato, ma di essergli schiavo volontariamente al punto che la sua volontà sia prigioniera dei suoi legami!» (II, 2, 7). Sulla scorta di Agostino e di Lutero, sostiene che «la volontà dell'uomo non è libera senza lo Spirito di Dio, dato che è soggetta alle proprie concupiscenze» e che «l'uomo usando male il libero arbitrio, lo ha perduto ed ha perduto se stesso: il libero arbitrio è in cattività e non può operare il bene: non sarà libero fino a che la grazia di Dio lo abbia liberato» (II, 2, 8).
Se la salvezza dell'uomo è possibile solo attraverso Cristo, allora la Legge mosaica fu data per «mantenerne viva l'attesa». (II, 7, 1) e se il culto ebraico – fatto di sacrifici animali e «fumo puzzolente per riconciliarsi con Dio [...] appare un gioco sciocco e infantile» (II, 7, 2), occorre tenerne presente i simboli cui corrispondono verità spirituali. Tre sono i compiti della Legge morale: «mostrando la giustizia di Dio, la Legge fa prendere coscienza a ognuno della propria ingiustizia, convincendolo e condannandolo» (II, 7, 6) e facendo sorgere la coscienza del peccato. La seconda funzione «consiste nel ricorrere alle sanzioni per mettere un freno alla malvagità di quanti si curano di fare il bene solo quando siano costretti» (II, 7, 10), mentre la terza e principale «si esplica fra i credenti nel cui cuore già regna ed agisce lo spirito di Dio [...] per far loro sempre meglio e più sicuramente comprendere quale sia la volontà di Dio» (II, 7, 12). E tuttavia Gesù Cristo, venuto ad abolire la Legge fatta di precetti e «con la purificazione operata dalla sua morte [...] ha abolito tutte quelle pratiche esteriori con cui gli uomini si confessano debitori di Dio senza poter essere scaricati dei loro debiti» (II, 7, 17).
Esistono differenze tra il Vecchio e il Nuovo Testamento: quest'ultimo ha rivelato più chiaramente «la grazia della vita futura [...] senza ricorrere [...] a strumenti pedagogici inferiori» (II, 11, 1); il Vecchio Testamento «rappresentava la verità, ancora assente, mediante immagini; invece del corpo, aveva l'ombra (II, 11, 4), in esso vi è, come scrive Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi, «dottrina letterale, predicazione di morte e di condanna scritta su tavole di pietra; l'Evangelo invece dottrina spirituale di vita e di giustizia scolpita nei cuori; afferma inoltre che la Legge deve essere abolita e che l'Evangelo permane» (II, 11, 7). L'Antico Testamento «genera timore e terrore nel cuore degli uomini; il Nuovo, [...] li conferma nella sicurezza e nella fiducia (II, 11, 9).
fonte: Enciclopedia delle religioni CESNUR