I Dieci Comandamenti Catechesi - Cristiani Cattolici: Pentecostali Apologetica Cattolica Studi biblici

Vai ai contenuti

I Dieci Comandamenti Catechesi

Catechesi Sesta Parte

I DIECI COMANDAMENTI

«Non avrai altri dèi...»

Il primo comandamento

Gianfranco Ravasi


1) Non avrai altro Dio fuori di me.  
2) Non nominare il nome di Dio invano.  
3) Ricordati di santificare le feste.  
4) Onora il padre e la madre.  
5) Non uccidere.  
6) Non commettere atti impuri.   
7) Non rubare.  
8) Non dire falsa testimonianza.   
9) Non desiderare la donna d'altri.   
10) Non desiderare la roba d'altri.

Il Decalogo costituisce un'unità organica, in cui ogni «parola» o «Comandamento» rimanda a tutto l'insieme. Trasgredire un Comandamento è infrangere tutta la Legge.

Come osservare i Comandamenti?  
Dio rende possibile con la sua Grazia ciò che comanda.


        Dio allora pronunziò tutte queste parole: lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
(Esodo 20, 1-6)

A soli 11 anni Mozart componeva un testo musicale intitolato Die Schuldigkeit des ersten Gebotes (KV 35), cioè «Il dovere del primo comandamento»: era la prima parte di un oratorio eseguito nel 1767 con cinque attori-cantanti: lo Spirito cristiano, la Misericordia, la Giustizia, lo Spirito del Mondo, il Cristiano (un'edizione discografica è quella di Schwann-Musica sacra AMS 714 15). Il rilievo dato a questo comandamento, di cui sopra abbiamo offerto la formulazione biblica completa presente nel libro dell'Esodo, è giustificato perché la prima delle "dieci parole" del Decalogo è il sostegno, la base e l'interpretazione delle altre nove. Se per il filosofo greco Protagora (V sec. a.C.) «l'uomo è misura di tutte le cose» — tesi ripresa alla lettera da Platone nelle Leggi (IV, 716c) — «il Decalogo non percorre la via dell'uomo a Dio ma va da Dio all'uomo per cui misura di ogni cosa non è l'io ma Dio» (J. Schreiner).
Del primo comandamento il testo biblico offre tre formulazioni diverse che ora esamineremo: esse sono come altrettante sfaccettature dello stesso messaggio che, in questo caso, è squisitamente religioso.
Ecco, innanzitutto, la formulazione teologica: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (o con una sfumatura di ostilità «contro di me»). Questa negazione di ogni dio inferiore o parallelo non è tanto una professione teorica di monoteismo, di difficile espressione per la mentalità simbolica orientale. È piuttosto un monoteismo intuitivo, acritico, "affettivo", è una dichiarazione di adesione amorosa al Signore il cui nome sacro e impronunciabile è, però, rivelato a Israele, Jhwh. È per questo che è detto "il comandamento principe". «Dio non è un'idea, non è un'astrazione come allora lo rappresentava la piramide dei valori della filosofia greca. Dio è persona. Dio è un Tu che si piega verso gli uomini e vuole essere un Dio vicino, amico degli uomini e ricco di aiuto: il tuo Dio» (A. Läpple).

Ecco poi la formulazione concreta del comandamento. «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra». Israele rifiuta ogni immagine di pietra oppure intagliata nel legno e ricoperta di metallo che i popoli circostanti usavano come simulacri della divinità. Alla base di questa proibizione reiterata da tutta la S. Scrittura c'è la convinzione, tipica della cultura simbolica orientale, secondo la quale l'immagine è come la realtà stessa raffigurata. Dall'effigie, dai simboli sacri, come gli amuleti o i talismani o i pali fallici dei culti orientali della fertilità traspariva il dio stesso: l'icona era portatrice del fluido della divinità, era mediatrice efficace e magica della presenza della persona raffigurata. Il Signore, invece, non è riducibile a un oggetto manipolabile, non è imprigionabile in uno spazio, né oggettivabile in una statua, è un Dio persona, condottiero che pellegrina coi suoi fedeli.
A questo proposito suggestivo è il parallelo col computer, l'idolo del racconto filmico Decalogo I del regista polacco Kieslowski, a cui nei precedenti articoli abbiamo fatto riferimento per un commento moderno ai dieci comandamenti: a questo idolo il protagonista affida tragicamente la vita di suo figlio. Noi possiamo, invece, ricorrere a un episodio storica per illuminare questa concezione biblica di Dio cosiddetta "aniconica", cioè senza immagini. Il tempio di Gerusalemme era bersaglio delle frecce e dei proiettili delle legioni romane, il sangue delle vittime sacrificali si mescolava a quello dei sacerdoti uccisi, la resistenza ebraica era ormai disperata. Dopo tre mesi d'assedio il tempio fu invaso: era l'autunno del 63 a.C. e a Roma era console M. Tullio Cicerone. In quel giorno Pompeo anticipando il gesto di Tito nella definitiva distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., decise di penetrare nel Santo dei Santi del tempio, il luogo valicabile solo dal sommo sacerdote una volta sola l'anno: tutto il mondo ebraico a questa notizia si fermò con sgomento e raccapriccio. Scrisse lo storico ebreo Giuseppe Flavio, contemporaneo di S. Paolo: «Fra tante sciagure quella che colpì maggiormente la nazione fu che il tempio, fino a quel momento sottratto alla vista, fu svelato agli stranieri» (La Guerra Giudaica I, 7, 6). Sollevato il velo che celava quel tempietto interno, il romano Pompeo, religiosamente grossolano, credeva di incontrare qualche mostruoso simulacro orientale e invece, nota Tacito (Historiae V, 9), trovò «una sede priva di alcuna effigie divina e un santuario inutile». Il Dio vivente, il Signore del cielo e della terra, non aveva bisogno di un elemento magico per farsi rappresentare nel dialogo col suo popolo.
La proibizione delle immagini di Dio, che è forse la più antica formulazione del primo comandamento, si estende a ogni settore del cosmo visto come tripartito secondo la cosmologia classica della Bibbia: nessun elemento del cielo, della terra e dell'abisso primordiale può "riprodurre" il Creatore.

La censura si estenderà, così, a ogni rappresentazione di creatura vivente e Israele resterà un popolo senza arti pittoriche o plastiche (le eccezioni appariranno nel tardo Giudaismo oppure nelle note rappresentazioni dei cherubini dell'arca). Se si vuole cercare l'immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra non bisogna ricorrere a una statua fredda o a un vitello d'oro, come farà Israele nel deserto (Esodo 32) o come farà-il re d'Israele Geroboamo I nel X sec. a. C. coi due torelli sacri collocati nei santuari di Dan e di Betel (1 Re 12, 28).

Si deve, invece, guardare il volto di un uomo perché «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1, 27). La religione biblica ha come punto di riferimento solo la Parola di Dio e l'uomo come segni viventi di Dio; la religione genuina è dinamica, personale, libera, non statica, oggettuale e magica. Perciò è «maledetto l'uomo che fa un'immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d'artefice e la pone in un luogo occulto!» (Deuteronomio 27, 15). Cantava il grande poeta austriaco Rainer M. Rilke (1875-1926) nel suo Libro d'Ore:

Tutti quelli che ti cercano ti tentano,
e quelli che ti trovano ti legano
a un'immagine e a un gesto.
Noi erigiamo statue davanti a te come pareti
così che già mille muri stanno intorno a te.

Ecco, infine, la terza formulazione di taglio liturgico del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai».
"Prostrarsi" è l'atto orientale dell'adorazione cultica. Esso deve avere come termine solo il Dio trascendente: «Colui che offre un sacrificio agli dèi oltre che al solo Signore, sarà votato allo sterminio» (Esodo 22, 19). Come nel giorno glorioso dell'ingresso nella terra promessa, Israele deve sempre ripetere la sua scelta religiosa: «Noi vogliamo servire il Signore perché egli è il nostro Dio» (Giosuè 24, 18).
A questo punto il testo del primo comandamento si espande in una descrizione del vero volto di Dio espressa secondo il pittoresco linguaggio semitico. Dio è qanna', "geloso": è questo il primo lineamento della fisionomia di Dio. Egli è intransigente ed esclusivo (l'idea è desunta dal tema dell'amore proprio, della passione per una "proprietà"), non tollera che la sua "eredità" più preziosa, l'uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni. «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Deuteronomio 4, 24). Successivamente, però, si introdurrà una sfumatura di tenerezza in questa gelosia. Nell'VIII sec. a.C. Osea, il profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e l'annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito, ma il Signore tradito continua ad attenderla presso il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: «Ecco la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore» (Osea 2, 16). L'amore, comunque, non cancella la giustizia, come attestano le benedizioni e le maledizioni finali riservate a chi accoglie i comandamenti e a chi li viola. Tuttavia a prevalere è sempre l'amore: se è vero che la giustizia del Signore ricorda il peccato "per quattro generazioni", è altrettanto vero che il suo amore si estende "fino a mille generazioni".

A questo punto si pone un interrogativo molto semplice: questa prima e fondamentale "parola" antica che significato ha per l'uomo contemporaneo?

Il primo comandamento è un atto d'accusa contro la moderna idolatria i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che questi feticci che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia di una nave nel mare o come una nuvola che si dissolve al calore del sole.

Il primo comandamento è un atto d'accusa contro l'indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfo di un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l'ansia della ricerca l'inquietudine della coscienza per occuparsi solo di interessi limitati, per affidarsi solo a piccole pallide lampade anziché lasciarsi guidare dal sole sfolgorante, come diceva Sant'Agostino.
Il primo comandamento è un atto d'accusa contro le immagini errate di Dio che noi ci costruiamo. Dio viene ridotto a un oggetto manipolabile secondo i nostri interessi e la religione si trasforma in superstizione. «lo sono il Dio di Abramo, il Dio di [sacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi!» (Matteo 22, 32).

Il primo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio. Il "conoscere" nella Bibbia è il verbo dell'amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione. Non basta conoscere Dio, bisogna riconoscerlo, cioè amarlo, anche attraverso un lungo itinerario di ricerca finché brilli «la stella del mattino» (Apocalisse 2, 28).
Il primo comandamento è un invito alla coerenza spirituale e gioiosa nella vita. Perciò il culto e la fedeltà che si danno a Dio non devono essere simili alla tassa versata nell'amarezza al fisco di Cesare (Matteo 22, 21).
Il primo comandamento è un invito a scoprire dietro l'aspetto fragile e persino odioso del prossimo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l'uomo, "immagine di Dio" e luogo dell'incontro vivo con Dio.


«Non nominare il nome di Dio invano»


Il secondo comandamento

"Bada, nun biastimà, Pippo, ché Iddio / è orno da risponne per le rime». Così, con la sua ben nota ironia lievemente dissacrante, Giuseppe Gioacchino Belli, il famoso poeta romanesco (17911863), ammoniva un suo immaginario interlocutore contro i rischi della bestemmia. Il titolo del sonetto era emblematico: Primo, non pijà er nome de Dio invano, titolo desunto dal Decalogo biblico ove appunto leggiamo — in realtà come secondo comandamento — il precetto: «Non pronunzierai invano il nome del Signore, Dio tuo, perché il Signore non lascia impunito chi pronunzia il suo nome invano» (Esodo 20,7). Per noi, anche se forse solo nel ricordo remoto di un'adolescenza ormai stinta e persino estinta, il comandamento è rimasto impresso nella formulazione essenziale e lapidaria: «Non nominare il nome di Dio invano».

Tutti, comunque, quando sentono riecheggiare quelle parole, corrono spontaneamente a un comportamento ancora diffuso, nonostante il cattivo gusto che esso rivela anche agli occhi (o meglio alle orecchie) di chi non è credente, quello appunto della bestemmia, comportamento un tempo punito anche dalla legislazione civile. Con un certo sarcasmo un proverbio orientale afferma: "Quando la rabbia ti fa sputare contro il cielo, finisci sempre con lo sputarti in testa». E, nonostante il nostro luogo comune, espresso anche dalla locuzione "bestemmiare come un turco", la profanazione del nome divino è una non esaltante prerogativa dell'Occidente: si pensi che in arabo è grammaticalmente e stilisticamente quasi "impossibile" bestemmiare, a meno di compiere un vero e proprio errore letterario.
È stato detto tanto sulla bestemmia, sulla volgarità, sulla sua rivelazione di impotenza, sul suo essere frutto della collera sconfitta, ma anche sul suo "depotenziamento semantico", cioè, in parole povere, sull'essere divenuta spesso solo un intercalare un po' ribaldo, un po' arrogante, un po' infantile e così via. Si è anche ridimensionata, con l'ausilio della psicologia, la sua gravità nei manualidi teologia morale: talvolta, come si diceva, essa non fiorisce — si fa per dire — sulle labbra come attacco cosciente e insolente alla divinità, ma semplicemente è espressione di una volgarità sociale strutturale e generalizzata, un'imitazione ingenua che si trasforma in abitudine inconsapevole e così via.

Tutto questo, comunque, non toglie la realtà sostanzialmente miserabile della bestemmia che non ha nulla della sfida di Prometeo al cielo ma che è solo semplice espressione di rifiuto, di rabbia, di impotenza e, ribadiamolo, di volgarità. Lo scrittore francese Julien Green, morto alle soglie dei 97 anni nell'agosto del 1998, in un'intervista dichiarava: «Quello che caratterizza la nostra epoca è la volgarità, non solo nelle maniere e nel linguaggio, ma anche nel modo che essa ha di offrire un'immagine di se stessa; non lo nasconde, ne è molto soddisfatta». Prima ancora che una questione teologica, la bestemmia è un problema di stile, di umanità matura e dignitosa.

Ma, detto questo, dobbiamo dirottare il nostro discorso verso una direzione un po' inattesa. Sopra affermavamo che l'Oriente, soprattutto quello antico, ignora l'atto blasfemo, sia nella sua forma più bassa, sia nella sua espressione più alta - si usa ora ricorrere al vocabolo grecizzante biasfemia, almeno nel linguaggio colto - di ribellione e di rifiuto di Dio. Facile, allora, è la domanda: se negare o offendere la divinità è alieno dalla mentalità di quell'orizzonte culturale e religioso, che cosa significa in realtà il secondo comandamento? Per rispondere al quesito e per indirizzare il precetto del Decalogo verso un nuovo orientamento, è necessaria una puntualizzazione attorno a due parole capitali della norma biblica.
«Non pronunzierai il nome del Signore...»: il primo termine da precisare è proprio il nome divino. In ebraico shem, il "nome", è molto più di un segno convenzionale dato a cose e persone per comunicare, è la realtà stessa nella sua identità più profonda. Per questo chi dà il nome a un essere ne è, per certi versi, signore, come è attestato da Adamo che impone il nome agli animali (Genesi 2,19-20), affermando in tal modo il suo dominio. Per questo chi conosce il nome di una persona ne è in comunione intima e profonda. Se già i Romani dichiaravano con un gioco di parole che nomen omen, cioè che il nome è un augurio e un indizio, per chi lo porta, del suo destino, anche noi nella selezione dei nomi dei figli cerchiamo di ricorrere a valori simbolici di parentela, di gusto, di estetica e - ahimè, per quella volgarità a cui sopra si accennava - di moda (i nomi degli "eroi" delle telenovelas!).

Più complessa è la questione quando è di scena il nome di Dio. E qui dobbiamo idealmente trasferirci nelle aspre solitudini del Sinai, in un acrocoro montuoso spazzato dal vento e reso incandescente dal sole implacabile del deserto. Là un uomo, profugo e solitario, sta marciando su una pista. Quand'ecco, all'improvviso, un cespuglio s'incendia. È una combustione di materiale secco a causa dell'alta temperatura? È un cosiddetto "fuoco di Sant'Elmo"? Chi ci racconta questo episodio celebre che ha per protagonista Mosè, la guida degli Ebrei nella liberazione dall'oppressione faraonica, non ha dubbi: l'autore del capitolo 3del libro dell'Esodo in questa modesta scena nel deserto vede il segno di una teofania, cioè di un'apparizione misteriosa di Dio. Il fuoco, infatti, raffigura la divinità: è esterno a noi come il Signore trascendente, ma è in noi, ci attraversa con la sua luce e il suo calore, proprio come il Dio vicino e salvatore. Ebbene, in quel luogo, sul quale ora si levano un tempio e un monastero, quello di S. Caterina al Sinai (alla cosiddetta "cappella del roveto ardente" si accede — come fece Mosè — a piedi scalzi), una voce proclama il nome sacro divino, ma strana è proprio la qualità di quel nome che sembra dire e negare, svelare e celare. Ascoltiamo due battute di quel dialogo davanti al rovo incendiato: «Mosè disse a Dio: Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Essi però diranno: Come si chiama? E io cosa risponderò loro? Dio rispose a Mosè: lo sono colui che sono! Dirai agli israeliti: lo-sono mi ha mandato a voi» (Esodo 3,13-14). Sorprendente è questo nome affidato non a un sostantivo ma a un verbo, «lo sono».
La tradizione ebraica ricorrerà a quattro consonanti, JHWH, per indicare quel nome che si collega al verbo hyh, "essere". Ma curiosamente ne impedirà la pronunzia (Jahweh è una resa vocalizzata escogitata successivamente; Jehowah o Geova è, invece, sicuramente erronea, anche se usata dai Testimoni di Geova). Al suo posto ancor oggi gli Ebrei leggono Adonaj, cioè "Signore". Perché questo silenzio mistico? E quella definizione
"lo sono colui che sono" è una rivelazione o un velamento del nome di Dio? La risposta è proprio nel significato del nome presso gli Orientali. Se esso incarna la realtà di una persona, è ovvio che il nome di Dio è ignoto e ineffabile, proprio come il suo essere misterioso. Eppure non è un vano e vago appellativo quel JHWII perché rimanda a un verbo, "lo-sono", a una presenza efficace, a un'azione che si insinua e opera nella storia degli uomini.

A questo punto dobbiamo spiegare il secondo termine: «Non pronunzierai il nome del Signore invano». In ebraico "invano" è un vocabolo con un valore preciso: shaw' è qualcosa di "falso", di "vuoto, vano e inutile", è la parola con cui si indica l'idolo. Allora scopriamo un altro senso da attribuire al secondo comandamento, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome "vano" di una cosa inutile e impotente. È un attacco sferrato alla falsa religione, agli idoli che ci costruiamo con le nostre mani, alle divinità comode e manipolabili, alle spiritualità simili a omogeneizzati in cui si miscelano sapori vaghi. Il filosofo inglese David Hume (1711-1776) affermava che «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli; quelli della religione sono sempre pericolosi».

Ai nostri giorni movimenti, sette, gruppi religiosi offrono una specie di fitness dell'anima, un cocktail di sapori spirituali esotici e speziati, un Dio shaw', cioè "vano" e comodo, che però alla fine risulta impotente e pericoloso, certamente incapace di salvare. Il pensiero corre al vitello d'oro del deserto, abbagliante nei suoi luccichii, ma destinato a essere frantumato e polverizzato. Tutti abbiamo un "nome vano" che pronunziamo nella superstizione e nell'illusione. Tutti ci rivolgiamo a qualche idolo, come confessava Pier Paolo Pasolini nel suo Usignolo della Chiesa Cattolica, raccolta poetica del 1949: «Come gli Ebrei ho anch'io il mio vitello d'oro  e solo ai suoi incanti porgo attenzione».
Molti idoli contemporanei sono più appariscenti e clamorosi di quella statua e portano magari il nome di tecnologia, finanza, potenza, piacere, consumo, pubblicità... Ma la radice è sempre la stessa, l'auto-adorazione dell'uomo o la sostituzione di una cosa al Dio vivente. Una sostituzione tragica perché l'uomo è mortale e le cose sono limitate e non possono salvarsi e salvare. Sarebbe come voler uscire dalle sabbie mobili in cui si sta affondando alzando le mani verso l'alto per sollevarsi. Il noto filosofo e psicologo Erich Fromm (1900-1980) nell'opera Voi sarete come dèi suggeriva una riflessione sull'idolatria che vorremmo porre a suggello di questo commento al secondo comandamento.

Scriveva dunque: «L'uomo trasferisce le sue passioni e qualità nell'idolo. Più egli si svuota, più l'idolo si ingrandisce e si fortifica. L'idolo è la forma alienata dell'esperienza dell'uomo di se stesso. Adorandolo, l'uomo si adora... L'idolo è una cosa e non ha vita. L'uomo, cercando di assomigliare a Dio, è un sistema aperto che si avvicina a Dio; l'uomo, sottomettendosi agli idoli, è un sistema chiuso, che diventa egli stesso una cosa. L'idolo è privo di vita; Dio è vivo. La contraddizione tra idolatria e il riconoscimento di Dio è, in ultima analisi, tra l'amore per la morte e l'amore per la vita».
La lotta tra l'idolatria e la fede è sostanzialmente un confronto tra morte e vita, come dice il filosofo tedesco. Proprio come cantava l'antico poeta ebreo, il Salmista: »Sono un soffio i figli dell'uomo / e illusione i potenti del mondo: / a pesarli, insieme, sono aria... / Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto: / pur se abbonda la vostra ricchezza, / mai ponete in essa il cuore / ... Solo in Dio il mio cuore riposa, / da lui viene la mia speranza. / È mia rupe e mia salvezza lui solo, / la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62).

Dobbiamo allora ricordare il monito di Elias Canetti, famoso scrittore di origini ebraiche, nato in Bulgaria nel 1905 e morto nel 1994, nel suo ritratto impietoso di quella folla di cristiani che nominano il nome di Dio invano, praticando una religione interessata e idolatrica. Ecco le sue parole: «Ogni volta che non ha niente da dire, costui nomina Dio. Possono prendere il loro Dio nella bocca come pane. Possono, quando vogliono, nominarlo, chiamarlo, proclamarlo. Masticano il suo nome, inghiottono il suo corpo. E dicono ancora che per loro non c'è nulla di più alto di Dio. Sospetto che molti di quelli che pregano cerchino di arraffare da Dio una quantità di cose che non vogliono cedere mai più, e questo prima che un altro le abbia arraffate al loro posto».

«Ricordati del giorno di sabato»

Il terzo comandamento



«La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sullo stesso ritmo... Soltanto, un giorno, sorge il "perché" e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore». Così appare la vita dell'uomo contemporaneo: un ripetersi inconcludente e insensato di azioni e occupazioni, costellato solo da qualche attimo di tregua, anch'esso programmato e scontato, emblematicamente chiamato week-end fine settimana, cioè porzione di giorni monotoni e identici. A dar voce a questo sentimento di grigiore è il grande scrittore ateo francese Albert Camus (1913-1960) nel brano che abbiamo estratto dall'opera Il mito di Sisifo. Egli continua: «Di solito viviamo facendo assegnamento sull'avvenire: domani, più tardi, quando avrai una posizione, con l'età comprenderai. Queste incoerenze sono straordinarie dato che, alla fine dei conti, si tratta di morire».
In una sequenza così priva di soste meditative autentiche è arduo ritrovare un senso alla vita, un "perché" che impedisca di giungere alla conclusione drammatica dello scrittore francese: «Vi è un solo problema filosofico serio: quello del suicidio». È in questa atmosfera cupa che vogliamo introdurre - nella nostra costante e progressiva lettura del Decalogo - il terzo comandamento, un precetto positivo e solare, così caro all'ebreo da avergli fatto escogitare questa mini-parabola tradizionale: «Dio disse a Mosè: Mosè, io posseggo nella mia tesoreria un dono prezioso che si chiama sabato. Voglio regalarlo a Israele». Il giorno festivo è, dunque, un tesoro, è una scintilla di luce deposta nel grigiore delle ore feriali; è un seme che feconda la terra del lavoro; è uno sguardo verticale, levato verso l'alto e l'infinito, capace di interrompere l'orizzontalità della nostra visione comune e continua.
Quel tesoro è consegnato al Sinai, all'interno appunto dei dieci comandamenti, laddove leggiamo: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro» (Esodo, 20, 8-11). Il termine "sabato" è allusivamente connesso al verbo shabat, "riposare". Tuttavia, è più probabile che originariamente esso si colleghi al numero sette, in ebraico sheba`, donde sarebbe semplicemente il "settimo giorno", fermo restando che - come noto - nella mistica simbolica orientale dei numeri, il sette è la cifra della pienezza e della perfezione.
Già in Mesopotamia esistevano calendari a ritmo settenario regolati dalla divinità lunare che scandiva il tempo. Tuttavia si trattava di uno "spazio" confinato e isolato nel tempo, tant'è vero che esistevano altri giorni intangibili e magici analoghi al settimo giorno ed erano considerati nefasti per intraprendere ogni tipo di attività (erano chiamati in babilonese umu lemnuti, in pratica "giorni intoccabili"). Certo, il rischio di isolare sacralmente il giorno festivo in un'aura di incensi e di prescrizioni legali, rendendolo una specie di tabù, circondato da una siepe di proibizioni, emergerà anche nella tradizione ebraica.

Un testo giudaico del II secolo a.C., il Libro dei Giubilei, minaccia la pena capitale per la violazione di alcune proibizioni classiche proprie del sabato: ad esempio, accendere il fuoco o preparare cibi, norme ancor oggi rispettate dagli Ebrei osservanti, come ricordano coloro che in Israele trovano di sabato ascensori particolari che si spostano senza essere comandati manualmente perché premere il pulsante è considerato un'accensione e quindi una violazione del riposo sabbatico.
Il trattato del Talmud sul sabato elenca 39 precetti per una corretta osservanza di quel giorno sacro. E la tentazione di considerare la giornata festiva solo come uno spazio vuoto da tutto ciò che è profano è stata forte anche nel cristianesimo con la distinzione tra lavori servili e liberali. ll riposo, invece, non deve essere fine a se stesso; tra il tempio ove si celebra il culto sabbatico o domenicale e la piazza della città - come diceva il teologo ortodosso russo Pavel Evdokimov - non ci dev'essere una barriera isolazionista, ma una soglia attraverso la quale corre il vento dello Spirito che unisce sacro e profano. Il sabato non dev'essere un'isola sacrale che disdegna il resto dei giorni; non può essere solo un'area vuota,
votata all'inerzia, come ironizzava lo storico Tacito a proposito del sabato ebraico, secondo la concezione che egli ne aveva. Il riposo biblico, tra l'altro, è un concetto positivo, non si riduce a mera assenza di fatica, ma è simbolo di comunione con l'eterno, con l'infinito di Dio, col senso ultimo della vita: è questa la requies aeterna che i cristiani augurano ai loro defunti, una festa piena e senza appannamento nella luce intramontabile di Dio.
«Dio benedisse il settimo giorno - si legge in Genesi 2,3 al termine del racconto della creazione a cui rimanda anche il precetto del Decalogo sul sabato - e lo consacrò perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto». Il settimo giorno è, sì, esodo dal lavoro alienante, dalla tensione quotidiana, ma non è rinuncia alla vita quotidiana e al lavoro. Al sabato l'uomo non domina più le cose, ma ne scopre il senso e loda il Creatore; nel sabato egli intuisce l'armonia del creato. La logica consumistica del tempo libero come è vissuta dalla nostra società contemporanea è ulteriore alienazione; la logica del settimo giorno biblico è, invece, l'ingresso nell'unità armonica tra mondo e uomo, tra azione e contemplazione, tra parole e Parola. Una foglia, attraversata dalla luce del sole, rivela un reticolo di nervature e un ampio tessuto connettivo: se essa fosse solo nervatura, si accartoccerebbe e diventerebbe un mostro; se fosse solo tessuto, si dissolverebbe e si affloscerebbe.
Così è la settimana del credente.
Ha bisogno del settimo giorno come di una nervatura che sostiene i sei giorni: guai se la settimana fosse priva di questo alimento; ma guai se si ignorasse il profano chiudendosi in un misticismo evanescente!
In questa luce si comprende il monito dei profeti biblici che bollavano l'osservanza meramente rituale del sabato: il rito senza la vita è farsa, la liturgia domenicale senza giustizia negli altri sei giorni è magia. «Non posso sopportare delitto e solennità», afferma il Signore in Isaia (1,13). E Gesù dichiarerà in modo lapidario che è il sabato che è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato (Marco 2,27) e non esiterà a guarire malati anche di sabato, pur compiendo un'azione apparentemente vietata dalle normative citate sul riposo sabbatico. Non per nulla nella seconda versione che è offerta dalla Bibbia riguardo al Decalogo, quella presente nel capitolo 5 del Deuteronomio, si invita a ricordare nel giorno di sabato la libertà donata da Dio in occasione dell'esodo dalla schiavitù egiziana: «Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno del sabato» (Deuteronomio 5,15). Commentava uno studioso tedesco, Hans W. Wolff: «Ogni sette giorni Israele deve ricordarsi che il suo Dio è un Dio liberatore, il quale pose fine a una dura schiavitù e che continua a ergersi contro tutte quelle potenze che vogliono opprimere il suo popolo».
«Santificare la festa» è, quindi, prima di tutto santificare se stessi, sostare per contemplare Dio e per penetrare nella propria coscienza, ritrovare la carica per rientrare nei giorni feriali in modo più puro e generoso. Come diceva il bel documento di Giovanni Paolo Il Dies Domini, pubblicato il 31 maggio 1998, la festa dev'essere per il cristiano dies Domini, dies Christi, dies Ecclesiae, dies hominis, dies dierum, cioè «giorno del Signore, di Cristo, della Chiesa, dell'uomo e giorno dei giorni».

Queste espressioni illuminano l'intreccio tra "verticalità" (il sacro e il divino) e "orizzontalità" (quotidianità, concretezza, umanità e fraternità) del giorno festivo. È, perciò, con particolare calore che raccomandiamo la lettura di quella bella Lettera apostolica che cerca di far riscoprire il senso perduto della festa e che potrà essere meditata attraverso una delle varie edizioni reperibili presso una libreria religiosa.
Noi vogliamo concludere questo commento al terzo comandamento con due note ulteriori, desunte come spunto da quel testo pontificio. La prima riguarda proprio la caratteristica della "domenica" come giorno del culto (il termine di origine latina, come è noto, significa "giorno del Signore"). Cerchiamo di esprimere questo aspetto, che potrebbe essere tratteggiato in molteplici forme, attraverso una poesia di Carlo Betocchi (1899-1986), intitolata suggestivamente Messa piana: (Quando vado alla messa spesso non prego, / guardo. Sono come un bambino. Guardo, / e credo. E il Signore mi dice (con povere fiammelle di candela, mutamente entro me, nel mio guardare), / - Bravo, hai fatto bene a venire. E al segreto consenso la coscienza / s'indebita, riconoscente. E mormora: Basta; così sian tutti, tutti oramai, con me. / Anche quei pochi a cui ho fatto del bene. E solo mi lascino, / taciti, solo nel mio guardare».

Spesso nei suoi versi questo poeta torinese, formatosi e vissuto a Firenze, ha lasciato fremere l'ansia spirituale, nel quotidiano ha fatto provare i brividi della trascendenza. Questa sua testimonianza, certo, non deve essere considerata come una guida alla celebrazione eucaristica che deve comprendere il canto, la preghiera, la lettura, l'ascolto, la coralità. Tuttavia c'è un aspetto che è altrettanto fondamentale e che viene spesso ignorato: la liturgia è "spettacolo" nel senso nobile del termine, è un guardare dei segni che ci devono parlare dell'Altro, di un Oltre che supera la storia. La preghiera domenicale come meta terminale deve avere il silenzio della contemplazione pura, dell'adorazione, dell'abbandono sereno, pacato e placato da Dio. «Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono», dirà Giobbe al termine del suo lungo e travagliato itinerario umano e spirituale (42,5). Sarebbe importante creare sempre uno spazio libero e puro di contemplazione, una vera e propria oasi dello spirito. E questo non solo per il credente, ma per ogni uomo che vuole ritrovare se stesso estraendosi dalla superficialità e dalla frenesia della vita. «Guardo, e credo», dice Betocchi. Essere aperti al mistero che si manifesta e sentire anche noi quelle parole tenere e semplici che Dio ci rivolge: «Bravo, hai fatto bene a venire». C'è però un'altra considerazione che vogliamo proporre ai nostri lettori a margine del terzo comandamento. In un testo giudaico antico, la Vita di Adamo ed Eva, si legge questa frase: «il settimo giorno è il segno della risurrezione e del mondo futuro». Un filosofo mistico ebreo contemporaneo, Abraham J. Heschel (1907-1972), in una sua opera intitolata Il sabato. Il suo significato per l'uomo moderno (Rusconi 1972), affermava che «il settimo giorno fornisce nel tempo un assaggio di eternità« attraverso la preghiera, il silenzio e la serena contemplazione. Nella Genesi si racconta che l'uomo fu creato come vertice del creato, ma lo fu nel sesto giorno, e noi sappiamo che il sette è la cifra della perfezione, il sei è segno del limite e dell'imperfezione. Ebbene, attraverso la fede e la liturgia del settimo- giorno l'uomo può gustare il "tempo" di Dio, il suo riposo di pace e di luce.

«Quando giungerà la nostra ora, moriremo rassegnati e lassù diremo che abbiamo sofferto, abbiamo pianto, che la nostra vita è stata così amara, e Dio avrà compassione di noi, e tu ed io, zio, zio caro, conosceremo una vita radiosa, stupenda, meravigliosa. La gioia ci riempirà e noi considereremo con un sorriso commosso la nostra presente infelicità, e riposeremo. Riposeremo! Tu non hai mai conosciuto la gioia in tutta la tua vita, ma aspetta, zio Vanja, aspetta... Riposeremo, riposeremo!».
Forse qualche lettore ha riconosciuto in queste parole e nel nome del personaggio la finale del dramma Zio Vanja composto da Anton Cechov nel 1896 e rappresentato la prima volta nel 1899. I due colpi di pistola destinati al suicidio vanno a vuoto e il protagonista rimane ancora in vita, ricevendo l'appello a sperare oltre la stessa esistenza e la morte.
A sperare in quel riposo che darà tregua a ogni esistenza travagliata.
È curioso notare che in russo la domenica è espressa col vocabolo voskreséné, che letteralmente significa "risurrezione". Il cristiano ogni domenica celebra la risurrezione di Cristo e professa la sua fede nel destino ultimo che l'attende, quel "riposo eterno" a cui sopra abbiamo già accennato, una "vita radiosa, stupenda, meravigliosa", come dice Cechov, perché sarà trasfigurazione del nostro essere in una nuova e perfetta creazione. È per questo che il pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer, mentre stava andando incontro al martirio sotto i nazisti, che l'avrebbero impiccato il Sabato Santo del 1945, aveva esclamato: «Riposo di Dio, tu vieni incontro ai tuoi fedeli come una sera di festa immensa!».

«Onora il padre e la madre»

Il quarto comandamento


Nel 1997 Rizzoli ha pubblicato un volume lapidariamente intitolato Decalogo. In esso un critico letterario, Arnaldo Colasanti, vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti, aveva convocato dieci scrittori italiani invitandoli a "narrare" ciascuno un comandamento del Decalogo. Sono, così, sorti racconti diversi per genere, qualità e pertinenza che cercano di attualizzare quelle antiche parole. Così il "Non avrai altro Dio fuori di me" è riportato da Aurelio Picca all'interno di un ospedale ove una nonna vive le sue ultime ore, mentre Erri De Luca rappresenta il "Non desiderare la donna d'altri" attraverso la storia personale di una brigatista irriducibile e Luca Doninelli nel "Non uccidere" introduce la giornata di un killer. Il terzo comandamento è offerto da Linda Ferri nel racconto "Il tempo che resta" da un'angolatura particolare, quella di una donna gravemente malata che vive il suo ultimo compleanno.
Potremmo continuare in questa esemplificazione narrativa per tutti i comandamenti. Vogliamo, invece, segnalare solo un dato generale che tocca in modo particolare il quarto comandamento che ora presentiamo: è necessario soffiar via dal Decalogo la patina polverosa, arcaizzante e "da vecchio confessionale" odorante di muffa. Esso, come aveva a suo tempo insegnato Enzo Biagi con la sua trasmissione televisiva dedicata ai dieci comandamenti, colpisce la permanente e costante quotidianità, cioè l'universalità dell'uomo e della donna nella sua essenza profonda e nelle sue relazioni capitali.
Ecco, il quarto comandamento apparentemente sembra arroccarsi su una remota fortezza patriarcale ove domina il "Padre padrone", per usare il famoso titolo del libro autobiografico di Gavino Ledda, divenuto un fortunato film dei fratelli Taviani. In questa lettura letteralista del precetto è facile far esplodere la reazione di ribellione, ben espressa dal paradossale "Disonorate il padre!", motto ideale della contestazione di qualche tempo fa.
In realtà, come vedremo, il comandamento ben più "moderno" e universale, una volta compreso andando "al di là del versetto" , cioè della lettera, come usava dire il filosofo francese israelita Emmanuel Lévinas. Un altro filosofo, il tedesco Martin Heidegger, ci ammoniva che "interpretare è dire il non detto" di un testo, cioè andare oltre la superficie scavando nella profondità del significato ultimo e recondito. Tuttavia dobbiamo partire dal dettato della pagina biblica. In essa leggiamo questo appello: Onora tuo padre e tua madre, come il Signore tuo Dio ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nella terra che il Signore tuo Dio ti dà. Così si legge nel Decalogo del libro biblico del Deuteronomio (5,16), mentre nell'altra redazione, quella dell'Esodo (20,12), si ha in modo più essenziale: Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni nella terra che il Signore tuo Dio ti dà.
Notiamo innanzitutto che questo è, col terzo riguardante il riposo festivo, un comandamento esposto in forma positiva, a differenza degli altri precetti del Decalogo martellati da un severo "Non", seguito dall'imperativo della proibizione. Inoltre l'unico comandamento ad essere seguito da una benedizione (la vita lunga e felice). Questo fatto indica il rilievo attribuito all'"onorare" i genitori. È altrettanto significativo notare che, nonostante l'antica società patriarcale maschilista, padre e madre sono messi sullo stesso piano come degni di tutela e rispetto, cosa che non accade, ad esempio, in uno dei testi fondamentali del diritto dell'antico Vicino Oriente, il celebre Codice di Harnmurabi (verso il 1750 a.C.). Il verbo centrale è quell'"onorare", in ebraico kabbed, che merita particolare attenzione per il suo valore specifico che va ben oltre l'obbedienza o il vago rispetto.

Si pensi, infatti, che lo stesso verbo viene usato per esprimere anche la "venerazione" nei confronti di Dio e quindi il culto e la vita religiosa, tant'è vero che nel libro del profeta Malachia si appaiano i doveri verso Dio e verso i genitori: «Il figlio onora suo padre e il servo rispetta il padrone. Se io sono padre, dov'è l'onore che mi spetta?... Dice il Signore degli eserciti (1,6). Ma c'è anche una dimensione molto concreta in questo verbo "onorare" e che può essere sintetizzata nell'obbligo del sostentamento dei genitori. Scriveva uno studioso della Bibbia, Antonio Bonora: «In una società dove gli anziani non godevano dell'assicurazione o della pensione, i figli devono dare l'"onorario" ai genitori vecchi, cioè garantire loro il sostentamento, il necessario per vivere e, alla loro morte, anche un'onorevole sepoltura .

Su questa scia devono essere allegati altri testi biblici che sottolineano vari aspetti degli obblighi derivanti dal quarto comandamento. Si noti, ad esempio, la durezza con cui l'antico Israele biblico condannava la violazione di questi obblighi: «Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte. Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte (Esodo 21,15-17). Il profeta Ezechiele si lamenta con la città di Gerusalemme perché «in te si disprezza il padre e la madre» (22,7). Nel libro dei Proverbi si condanna «l'occhio che guarda con scherno il padre e disprezza l'obbedienza della madre (30,17) o «chi deruba il padre o la madre, dicendo: Non peccato! Ebbene, costui è compagno dell'assassino (28,24); si colpisce anche «chi rovina il padre o fa fuggire la madre, rivelandosi un figlio disonorato e infame (19,26); «chi maledice il padre e la madre vedrà spegnersi la sua lucerna nel cuore delle tenebre (20,20). In sintesi si esorta ad «ascoltare tuo padre che ti ha generato e a non disprezzare tua madre quando è vecchia» (23,22).

Forte e lapidario il monito del libro del Deuteronomio:
«Maledetto chi maltratta il padre e la madre!» (27,16), addolcito dal Levitico: «Ognuno rispetti sua madre e suo padre (19,3). Ma  è un sapiente biblico vissuto nel II sec. a.C., il Siracide, a offrire il più intenso e appassionato commento al quarto comandamento: «Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli, ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati; chi riverisce la madre come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi riverisce il padre vivrà a lungo; chi obbedisce al Signore dà consolazione alla madre. Chi teme il Signore rispetta il padre e serve come padroni i genitori. Onora tuo padre a fatti e a parole, perché scenda su di te la sua benedizione. La benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta. Non vantarti del disonore di tuo padre, perché il disonore del padre non è gloria per te: la gloria di un uomo dipende dall'onore del padre, vergogna per i figli una madre nel disonore. Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati. Nel giorno della tua tribolazione Dio si ricorderà di te; come fa il calore sulla brina, si scioglieranno i tuoi peccati» (Sir 3,2-16).

Anche Gesù sarà severo nei confronti di ogni violazione di questo comandamento, soprattutto quella codificata dalla tradizione giudaica e nota sotto il termine qorban ("realtà sacra"). Ipocritamente si dedicava in voto a Dio una cifra, così da essere esentati dal dovere del sostentamento dei genitori anziani. Gesù con veemenza dichiara: «Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione? Dio ha detto: Onora il padre e la madre e inoltre: Chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Invece voi asserite: Chiunque dice al padre o alla madre: Ciò con cui ti dovrei aiutare è offerto a Dio, non è più tenuto a onorare suo padre o sua madre. Così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti!» (Matteo 15,3-7).
Sulla duplice dimensione che il rapporto padri-figli comporta interviene, invece, Paolo quando agli Efesini scrive: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra» (6, 1-3). Proprio sulla base delle parole dell'Apostolo, dobbiamo scavare più in profondità in questo comandamento per scoprire l'ampiezza del suo orizzonte.

Giustamente uno studioso, J. Becker, osservava che il comandamento sui genitori è soltanto la punta di un iceberg. La famiglia, infatti, rappresenta anche altre forme naturali di comunità e di autorità, soprattutto la comunità del popolo.
È per questo che del quarto comandamento sono possibili altre interpretazioni più estensive e persino attuali. C'è innanzitutto quella sociale che vede nei genitori il simbolo del retto funzionamento delle relazioni familiari, tribali, comunitarie e, quindi, dell'intera vita socio-politica. In questa luce il precetto esalta il diritto-dovere di partecipare alla costruzione di una società armonica e giusta.

C'è un'altra dimensione che potremmo chiamare tradizionale. I genitori incarnano la generazione precedente coi suoi valori che devono essere trasmessi e attualizzati. Nell'onore da rendere ai genitori è, allora, implicito anche il riconoscimento della loro funzione di maestri, di tutori della tradizione, dell'eredità morale di una famiglia e di un popolo, dei valori spirituali e religiosi. L'onore reso ai genitori in questa luce dovrebbe contribuire a edificare una società sana e coerente. Per questo è grave la responsabilità del genitore come maestro: egli non deve lasciarsi tentare dallo scimmiottare i giovani ignorando la sua missione. Purtroppo, come notava il filosofo Friedrich W. Nietzsche, «i più grandi sbagli nel giudicare una persona li fanno proprio i suoi genitori», incapaci di educarla. C'è, quindi, nel comandamento un cenno implicito anche alla responsabilità del padre e della madre che, come diceva il Concilio Vaticano II, «devono essere per i figli primi maestri della fede (Lumen Gentium n. 11). Il poeta latino Giovenale (I sec. d.C.) scriveva: «I vizi che i genitori trasmettono ai figli sono numerosissimi. I cattivi esempi che vengono dalla famiglia corrompono più in fretta e più a fondo, perché penetrano nell'animo attraverso modelli autorevoli».
Infine, lo studioso tedesco R. Albertz ha identificato nel quarto comandamento una dimensione che chiameremo psico-fisica: il figlio, ormai autonomo e adulto, divenuto a sua volta responsabile della patria potestà, invitato a sostenere moralmente ed economicamente i genitori, radici della sua vita, mentre oramai essi si avviano verso il viale del tramonto. È questo un capitolo particolarmente rilevante per la nostra società che assiste all'invecchiamento di strati sempre più vasti e si trova impreparata a seguire e ad assicurare una vita dignitosa all'anziano. Certi ricoveri, simili a lazzaretti, la stessa realistica diminuzione delle forze lavorative giovani, l'allungamento dell'età media della vita, la frenesia dell'esistenza moderna rendono sempre più importante e spesso drammatica la riflessione e l'impegno che promanano da questo precetto decalogico. Ma il discorso s'allargherebbe a dismisura coinvolgendo aspetti etici, economici, psicologici, politici e sociologici. Noi ci accontentiamo di concludere col detto amaro dello scrittore inglese Oscar Wilde: «I figli cominciano con l'amare i loro genitori; quando crescono li giudicano e il più delle volta li dimenticano».

A questo proposito suggestivo è il parallelo col computer, l'idolo del racconto filmico Decalogo I del regista polacco Kieslowski, a cui nei precedenti articoli abbiamo fatto riferimento per un commento moderno ai dieci comandamenti: a questo idolo il protagonista affida tragicamente la vita di suo figlio. Noi possiamo, invece, ricorrere a un episodio storica per illuminare questa concezione biblica di Dio cosiddetta "aniconica", cioè senza immagini. Il tempio di Gerusalemme era bersaglio delle frecce e dei proiettili delle legioni romane, il sangue delle vittime sacrificali si mescolava a quello dei sacerdoti uccisi, la resistenza ebraica era ormai disperata. Dopo tre mesi d'assedio il tempio fu invaso: era l'autunno del 63 a.C. e a Roma era console M. Tullio Cicerone. In quel giorno Pompeo anticipando il gesto di Tito nella definitiva distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., decise di penetrare nel Santo dei Santi del tempio, il luogo valicabile solo dal sommo sacerdote una volta sola l'anno: tutto il mondo ebraico a questa notizia si fermò con sgomento e raccapriccio. Scrisse lo storico ebreo Giuseppe Flavio, contemporaneo di S. Paolo: «Fra tante sciagure quella che colpì maggiormente la nazione fu che il tempio, fino a quel momento sottratto alla vista, fu svelato agli stranieri» (La Guerra Giudaica I, 7, 6). Sollevato il velo che celava quel tempietto interno, il romano Pompeo, religiosamente grossolano, credeva di incontrare qualche mostruoso simulacro orientale e invece, nota Tacito (Historiae V, 9), trovò «una sede priva di alcuna effigie divina e un santuario inutile». Il Dio vivente, il Signore del cielo e della terra, non aveva bisogno di un elemento magico per farsi rappresentare nel dialogo col suo popolo.
La proibizione delle immagini di Dio, che è forse la più antica formulazione del primo comandamento, si estende a ogni settore del cosmo visto come tripartito secondo la cosmologia classica della Bibbia: nessun elemento del cielo, della terra e dell'abisso primordiale può "riprodurre" il Creatore.

La censura si estenderà, così, a ogni rappresentazione di creatura vivente e Israele resterà un popolo senza arti pittoriche o plastiche (le eccezioni appariranno nel tardo Giudaismo oppure nelle note rappresentazioni dei cherubini dell'arca). Se si vuole cercare l'immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra non bisogna ricorrere a una statua fredda o a un vitello d'oro, come farà Israele nel deserto (Esodo 32) o come farà-il re d'Israele Geroboamo I nel X sec. a. C. coi due torelli sacri collocati nei santuari di Dan e di Betel (1 Re 12, 28).

Si deve, invece, guardare il volto di un uomo perché «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1, 27). La religione biblica ha come punto di riferimento solo la Parola di Dio e l'uomo come segni viventi di Dio; la religione genuina è dinamica, personale, libera, non statica, oggettuale e magica. Perciò è «maledetto l'uomo che fa un'immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d'artefice e la pone in un luogo occulto!» (Deuteronomio 27, 15). Cantava il grande poeta austriaco Rainer M. Rilke (1875-1926) nel suo Libro d'Ore:

Tutti quelli che ti cercano ti tentano,
e quelli che ti trovano ti legano
a un'immagine e a un gesto.
Noi erigiamo statue davanti a te come pareti
così che già mille muri stanno intorno a te.

Ecco, infine, la terza formulazione di taglio liturgico del primo comandamento: «Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai».
"Prostrarsi" è l'atto orientale dell'adorazione cultica. Esso deve avere come termine solo il Dio trascendente: «Colui che offre un sacrificio agli dèi oltre che al solo Signore, sarà votato allo sterminio» (Esodo 22, 19). Come nel giorno glorioso dell'ingresso nella terra promessa, Israele deve sempre ripetere la sua scelta religiosa: «Noi vogliamo servire il Signore perché egli è il nostro Dio» (Giosuè 24, 18).
A questo punto il testo del primo comandamento si espande in una descrizione del vero volto di Dio espressa secondo il pittoresco linguaggio semitico. Dio è qanna', "geloso": è questo il primo lineamento della fisionomia di Dio. Egli è intransigente ed esclusivo (l'idea è desunta dal tema dell'amore proprio, della passione per una "proprietà"), non tollera che la sua "eredità" più preziosa, l'uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni. «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Deuteronomio 4, 24). Successivamente, però, si introdurrà una sfumatura di tenerezza in questa gelosia. Nell'VIII sec. a.C. Osea, il profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e l'annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito, ma il Signore tradito continua ad attenderla presso il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: «Ecco la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore» (Osea 2, 16). L'amore, comunque, non cancella la giustizia, come attestano le benedizioni e le maledizioni finali riservate a chi accoglie i comandamenti e a chi li viola. Tuttavia a prevalere è sempre l'amore: se è vero che la giustizia del Signore ricorda il peccato "per quattro generazioni", è altrettanto vero che il suo amore si estende "fino a mille generazioni".
A questo punto si pone un interrogativo molto semplice: questa prima e fondamentale "parola" antica che significato ha per l'uomo contemporaneo?

Il primo comandamento è un atto d'accusa contro la moderna idolatria i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che questi feticci che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia di una nave nel mare o come una nuvola che si dissolve al calore del sole.
Il primo comandamento è un atto d'accusa contro l'indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfo di un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l'ansia della ricerca l'inquietudine della coscienza per occuparsi solo di interessi limitati, per affidarsi solo a piccole pallide lampade anziché lasciarsi guidare dal sole sfolgorante, come diceva Sant'Agostino.
Il primo comandamento è un atto d'accusa contro le immagini errate di Dio che noi ci costruiamo. Dio viene ridotto a un oggetto manipolabile secondo i nostri interessi e la religione si trasforma in superstizione. «lo sono il Dio di Abramo, il Dio di [sacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi!» (Matteo 22, 32).
Il primo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio. Il "conoscere" nella Bibbia è il verbo dell'amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione. Non basta conoscere Dio, bisogna riconoscerlo, cioè amarlo, anche attraverso un lungo itinerario di ricerca finché brilli «la stella del mattino» (Apocalisse 2, 28).
Il primo comandamento è un invito alla coerenza spirituale e gioiosa nella vita. Perciò il culto e la fedeltà che si danno a Dio non devono essere simili alla tassa versata nell'amarezza al fisco di Cesare (Matteo 22, 21).
Il primo comandamento è un invito a scoprire dietro l'aspetto fragile e persino odioso del prossimo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l'uomo, "immagine di Dio" e luogo dell'incontro vivo con Dio.


«Non nominare il nome di Dio invano»


Il secondo comandamento

"Bada, nun biastimà, Pippo, ché Iddio / è orno da risponne per le rime». Così, con la sua ben nota ironia lievemente dissacrante, Giuseppe Gioacchino Belli, il famoso poeta romanesco (17911863), ammoniva un suo immaginario interlocutore contro i rischi della bestemmia. Il titolo del sonetto era emblematico: Primo, non pijà er nome de Dio invano, titolo desunto dal Decalogo biblico ove appunto leggiamo — in realtà come secondo comandamento — il precetto: «Non pronunzierai invano il nome del Signore, Dio tuo, perché il Signore non lascia impunito chi pronunzia il suo nome invano» (Esodo 20,7). Per noi, anche se forse solo nel ricordo remoto di un'adolescenza ormai stinta e persino estinta, il comandamento è rimasto impresso nella formulazione essenziale e lapidaria: «Non nominare il nome di Dio invano».
Tutti, comunque, quando sentono riecheggiare quelle parole, corrono spontaneamente a un comportamento ancora diffuso, nonostante il cattivo gusto che esso rivela anche agli occhi (o meglio alle orecchie) di chi non è credente, quello appunto della bestemmia, comportamento un tempo punito anche dalla legislazione civile. Con un certo sarcasmo un proverbio orientale afferma: "Quando la rabbia ti fa sputare contro il cielo, finisci sempre con lo sputarti in testa». E, nonostante il nostro luogo comune, espresso anche dalla locuzione "bestemmiare come un turco", la profanazione del nome divino è una non esaltante prerogativa dell'Occidente: si pensi che in arabo è grammaticalmente e stilisticamente quasi "impossibile" bestemmiare, a meno di compiere un vero e proprio errore letterario.
È stato detto tanto sulla bestemmia, sulla volgarità, sulla sua rivelazione di impotenza, sul suo essere frutto della collera sconfitta, ma anche sul suo "depotenziamento semantico", cioè, in parole povere, sull'essere divenuta spesso solo un intercalare un po' ribaldo, un po' arrogante, un po' infantile e così via. Si è anche ridimensionata, con l'ausilio della psicologia, la sua gravità nei manualidi teologia morale: talvolta, come si diceva, essa non fiorisce — si fa per dire — sulle labbra come attacco cosciente e insolente alla divinità, ma semplicemente è espressione di una volgarità sociale strutturale e generalizzata, un'imitazione ingenua che si trasforma in abitudine inconsapevole e così via.
Tutto questo, comunque, non toglie la realtà sostanzialmente miserabile della bestemmia che non ha nulla della sfida di Prometeo al cielo ma che è solo semplice espressione di rifiuto, di rabbia, di impotenza e, ribadiamolo, di volgarità. Lo scrittore francese Julien Green, morto alle soglie dei 97 anni nell'agosto del 1998, in un'intervista dichiarava: «Quello che caratterizza la nostra epoca è la volgarità, non solo nelle maniere e nel linguaggio, ma anche nel modo che essa ha di offrire un'immagine di se stessa; non lo nasconde, ne è molto soddisfatta». Prima ancora che una questione teologica, la bestemmia è un problema di stile, di umanità matura e dignitosa.
Ma, detto questo, dobbiamo dirottare il nostro discorso verso una direzione un po' inattesa. Sopra affermavamo che l'Oriente, soprattutto quello antico, ignora l'atto blasfemo, sia nella sua forma più bassa, sia nella sua espressione più alta - si usa ora ricorrere al vocabolo grecizzante biasfemia, almeno nel linguaggio colto - di ribellione e di rifiuto di Dio. Facile, allora, è la domanda: se negare o offendere la divinità è alieno dalla mentalità di quell'orizzonte culturale e religioso, che cosa significa in realtà il secondo comandamento? Per rispondere al quesito e per indirizzare il precetto del Decalogo verso un nuovo orientamento, è necessaria una puntualizzazione attorno a due parole capitali della norma biblica.
«Non pronunzierai il nome del Signore...»: il primo termine da precisare è proprio il nome divino. In ebraico shem, il "nome", è molto più di un segno convenzionale dato a cose e persone per comunicare, è la realtà stessa nella sua identità più profonda. Per questo chi dà il nome a un essere ne è, per certi versi, signore, come è attestato da Adamo che impone il nome agli animali (Genesi 2,19-20), affermando in tal modo il suo dominio. Per questo chi conosce il nome di una persona ne è in comunione intima e profonda. Se già i Romani dichiaravano con un gioco di parole che nomen omen, cioè che il nome è un augurio e un indizio, per chi lo porta, del suo destino, anche noi nella selezione dei nomi dei figli cerchiamo di ricorrere a valori simbolici di parentela, di gusto, di estetica e - ahimè, per quella volgarità a cui sopra si accennava - di moda (i nomi degli "eroi" delle telenovelas!).
Più complessa è la questione quando è di scena il nome di Dio. E qui dobbiamo idealmente trasferirci nelle aspre solitudini del Sinai, in un acrocoro montuoso spazzato dal vento e reso incandescente dal sole implacabile del deserto. Là un uomo, profugo e solitario, sta marciando su una pista. Quand'ecco, all'improvviso, un cespuglio s'incendia. È una combustione di materiale secco a causa dell'alta temperatura? È un cosiddetto "fuoco di Sant'Elmo"? Chi ci racconta questo episodio celebre che ha per protagonista Mosè, la guida degli Ebrei nella liberazione dall'oppressione faraonica, non ha dubbi: l'autore del capitolo 3del libro dell'Esodo in questa modesta scena nel deserto vede il segno di una teofania, cioè di un'apparizione misteriosa di Dio. Il fuoco, infatti, raffigura la divinità: è esterno a noi come il Signore trascendente, ma è in noi, ci attraversa con la sua luce e il suo calore, proprio come il Dio vicino e salvatore. Ebbene, in quel luogo, sul quale ora si levano un tempio e un monastero, quello di S. Caterina al Sinai (alla cosiddetta "cappella del roveto ardente" si accede — come fece Mosè — a piedi scalzi), una voce proclama il nome sacro divino, ma strana è proprio la qualità di quel nome che sembra dire e negare, svelare e celare. Ascoltiamo due battute di quel dialogo davanti al rovo incendiato: «Mosè disse a Dio: Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Essi però diranno: Come si chiama? E io cosa risponderò loro? Dio rispose a Mosè: lo sono colui che sono! Dirai agli israeliti: lo-sono mi ha mandato a voi» (Esodo 3,13-14). Sorprendente è questo nome affidato non a un sostantivo ma a un verbo, «lo sono».
La tradizione ebraica ricorrerà a quattro consonanti, JHWH, per indicare quel nome che si collega al verbo hyh, "essere". Ma curiosamente ne impedirà la pronunzia (Jahweh è una resa vocalizzata escogitata successivamente; Jehowah o Geova è, invece, sicuramente erronea, anche se usata dai Testimoni di Geova). Al suo posto ancor oggi gli Ebrei leggono Adonaj, cioè "Signore". Perché questo silenzio mistico? E quella definizione
"lo sono colui che sono" è una rivelazione o un velamento del nome di Dio? La risposta è proprio nel significato del nome presso gli Orientali. Se esso incarna la realtà di una persona, è ovvio che il nome di Dio è ignoto e ineffabile, proprio come il suo essere misterioso. Eppure non è un vano e vago appellativo quel JHWII perché rimanda a un verbo, "lo-sono", a una presenza efficace, a un'azione che si insinua e opera nella storia degli uomini.

A questo punto dobbiamo spiegare il secondo termine: «Non pronunzierai il nome del Signore invano». In ebraico "invano" è un vocabolo con un valore preciso: shaw' è qualcosa di "falso", di "vuoto, vano e inutile", è la parola con cui si indica l'idolo. Allora scopriamo un altro senso da attribuire al secondo comandamento, un senso che lo collega al primo. La vera bestemmia è scambiare il nome-persona di Dio col nome "vano" di una cosa inutile e impotente. È un attacco sferrato alla falsa religione, agli idoli che ci costruiamo con le nostre mani, alle divinità comode e manipolabili, alle spiritualità simili a omogeneizzati in cui si miscelano sapori vaghi. Il filosofo inglese David Hume (1711-1776) affermava che «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli; quelli della religione sono sempre pericolosi».

Ai nostri giorni movimenti, sette, gruppi religiosi offrono una specie di fitness dell'anima, un cocktail di sapori spirituali esotici e speziati, un Dio shaw', cioè "vano" e comodo, che però alla fine risulta impotente e pericoloso, certamente incapace di salvare. Il pensiero corre al vitello d'oro del deserto, abbagliante nei suoi luccichii, ma destinato a essere frantumato e polverizzato. Tutti abbiamo un "nome vano" che pronunziamo nella superstizione e nell'illusione. Tutti ci rivolgiamo a qualche idolo, come confessava Pier Paolo Pasolini nel suo Usignolo della Chiesa Cattolica, raccolta poetica del 1949: «Come gli Ebrei ho anch'io il mio vitello d'oro / e solo ai suoi incanti / porgo attenzione».
Molti idoli contemporanei sono più appariscenti e clamorosi di quella statua e portano magari il nome di tecnologia, finanza, potenza, piacere, consumo, pubblicità... Ma la radice è sempre la stessa, l'auto-adorazione dell'uomo o la sostituzione di una cosa al Dio vivente. Una sostituzione tragica perché l'uomo è mortale e le cose sono limitate e non possono salvarsi e salvare. Sarebbe come voler uscire dalle sabbie mobili in cui si sta affondando alzando le mani verso l'alto per sollevarsi. Il noto filosofo e psicologo Erich Fromm (1900-1980) nell'opera Voi sarete come dèi suggeriva una riflessione sull'idolatria che vorremmo porre a suggello di questo commento al secondo comandamento.

Scriveva dunque: «L'uomo trasferisce le sue passioni e qualità nell'idolo. Più egli si svuota, più l'idolo si ingrandisce e si fortifica. L'idolo è la forma alienata dell'esperienza dell'uomo di se stesso. Adorandolo, l'uomo si adora... L'idolo è una cosa e non ha vita. L'uomo, cercando di assomigliare a Dio, è un sistema aperto che si avvicina a Dio; l'uomo, sottomettendosi agli idoli, è un sistema chiuso, che diventa egli stesso una cosa. L'idolo è privo di vita; Dio è vivo. La contraddizione tra idolatria e il riconoscimento di Dio è, in ultima analisi, tra l'amore per la morte e l'amore per la vita».
La lotta tra l'idolatria e la fede è sostanzialmente un confronto tra morte e vita, come dice il filosofo tedesco. Proprio come cantava l'antico poeta ebreo, il Salmista: »Sono un soffio i figli dell'uomo / e illusione i potenti del mondo: / a pesarli, insieme, sono aria... / Non vogliate affidarvi alla forza, le rapine non portano frutto: / pur se abbonda la vostra ricchezza, / mai ponete in essa il cuore / ... Solo in Dio il mio cuore riposa, / da lui viene la mia speranza. / È mia rupe e mia salvezza lui solo, / la mia roccia: io più non vacillo» (Salmo 62).
Dobbiamo allora ricordare il monito di Elias Canetti, famoso scrittore di origini ebraiche, nato in Bulgaria nel 1905 e morto nel 1994, nel suo ritratto impietoso di quella folla di cristiani che nominano il nome di Dio invano, praticando una religione interessata e idolatrica. Ecco le sue parole: «Ogni volta che non ha niente da dire, costui nomina Dio. Possono prendere il loro Dio nella bocca come pane. Possono, quando vogliono, nominarlo, chiamarlo, proclamarlo. Masticano il suo nome, inghiottono il suo corpo. E dicono ancora che per loro non c'è nulla di più alto di Dio. Sospetto che molti di quelli che pregano cerchino di arraffare da Dio una quantità di cose che non vogliono cedere mai più, e questo prima che un altro le abbia arraffate al loro posto».

«Ricordati del giorno di sabato»

Il terzo comandamento



«La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sullo stesso ritmo... Soltanto, un giorno, sorge il "perché" e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore». Così appare la vita dell'uomo contemporaneo: un ripetersi inconcludente e insensato di azioni e occupazioni, costellato solo da qualche attimo di tregua, anch'esso programmato e scontato, emblematicamente chiamato week-end fine settimana, cioè porzione di giorni monotoni e identici. A dar voce a questo sentimento di grigiore è il grande scrittore ateo francese Albert Camus (1913-1960) nel brano che abbiamo estratto dall'opera Il mito di Sisifo. Egli continua: «Di solito viviamo facendo assegnamento sull'avvenire: domani, più tardi, quando avrai una posizione, con l'età comprenderai. Queste incoerenze sono straordinarie dato che, alla fine dei conti, si tratta di morire».
In una sequenza così priva di soste meditative autentiche è arduo ritrovare un senso alla vita, un "perché" che impedisca di giungere alla conclusione drammatica dello scrittore francese: «Vi è un solo problema filosofico serio: quello del suicidio». È in questa atmosfera cupa che vogliamo introdurre - nella nostra costante e progressiva lettura del Decalogo - il terzo comandamento, un precetto positivo e solare, così caro all'ebreo da avergli fatto escogitare questa mini-parabola tradizionale: «Dio disse a Mosè: Mosè, io posseggo nella mia tesoreria un dono prezioso che si chiama sabato. Voglio regalarlo a Israele». Il giorno festivo è, dunque, un tesoro, è una scintilla di luce deposta nel grigiore delle ore feriali; è un seme che feconda la terra del lavoro; è uno sguardo verticale, levato verso l'alto e l'infinito, capace di interrompere l'orizzontalità della nostra visione comune e continua.
Quel tesoro è consegnato al Sinai, all'interno appunto dei dieci comandamenti, laddove leggiamo: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro» (Esodo, 20, 8-11). Il termine "sabato" è allusivamente connesso al verbo shabat, "riposare". Tuttavia, è più probabile che originariamente esso si colleghi al numero sette, in ebraico sheba`, donde sarebbe semplicemente il "settimo giorno", fermo restando che - come noto - nella mistica simbolica orientale dei numeri, il sette è la cifra della pienezza e della perfezione.
Già in Mesopotamia esistevano calendari a ritmo settenario regolati dalla divinità lunare che scandiva il tempo. Tuttavia si trattava di uno "spazio" confinato e isolato nel tempo, tant'è vero che esistevano altri giorni intangibili e magici analoghi al settimo giorno ed erano considerati nefasti per intraprendere ogni tipo di attività (erano chiamati in babilonese umu lemnuti, in pratica "giorni intoccabili"). Certo, il rischio di isolare sacralmente il giorno festivo in un'aura di incensi e di prescrizioni legali, rendendolo una specie di tabù, circondato da una siepe di proibizioni, emergerà anche nella tradizione ebraica.
Un testo giudaico del II secolo a.C., il Libro dei Giubilei, minaccia la pena capitale per la violazione di alcune proibizioni classiche proprie del sabato: ad esempio, accendere il fuoco o preparare cibi, norme ancor oggi rispettate dagli Ebrei osservanti, come ricordano coloro che in Israele trovano di sabato ascensori particolari che si spostano senza essere comandati manualmente perché premere il pulsante è considerato un'accensione e quindi una violazione del riposo sabbatico.
Il trattato del Talmud sul sabato elenca 39 precetti per una corretta osservanza di quel giorno sacro. E la tentazione di considerare la giornata festiva solo come uno spazio vuoto da tutto ciò che è profano è stata forte anche nel cristianesimo con la distinzione tra lavori servili e liberali. ll riposo, invece, non deve essere fine a se stesso; tra il tempio ove si celebra il culto sabbatico o domenicale e la piazza della città - come diceva il teologo ortodosso russo Pavel Evdokimov - non ci dev'essere una barriera isolazionista, ma una soglia attraverso la quale corre il vento dello Spirito che unisce sacro e profano. Il sabato non dev'essere un'isola sacrale che disdegna il resto dei giorni; non può essere solo un'area vuota,
votata all'inerzia, come ironizzava lo storico Tacito a proposito del sabato ebraico, secondo la concezione che egli ne aveva. Il riposo biblico, tra l'altro, è un concetto positivo, non si riduce a mera assenza di fatica, ma è simbolo di comunione con l'eterno, con l'infinito di Dio, col senso ultimo della vita: è questa la requies aeterna che i cristiani augurano ai loro defunti, una festa piena e senza appannamento nella luce intramontabile di Dio.
«Dio benedisse il settimo giorno - si legge in Genesi 2,3 al termine del racconto della creazione a cui rimanda anche il precetto del Decalogo sul sabato - e lo consacrò perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto». Il settimo giorno è, sì, esodo dal lavoro alienante, dalla tensione quotidiana, ma non è rinuncia alla vita quotidiana e al lavoro. Al sabato l'uomo non domina più le cose, ma ne scopre il senso e loda il Creatore; nel sabato egli intuisce l'armonia del creato. La logica consumistica del tempo libero come è vissuta dalla nostra società contemporanea è ulteriore alienazione; la logica del settimo giorno biblico è, invece, l'ingresso nell'unità armonica tra mondo e uomo, tra azione e contemplazione, tra parole e Parola. Una foglia, attraversata dalla luce del sole, rivela un reticolo di nervature e un ampio tessuto connettivo: se essa fosse solo nervatura, si accartoccerebbe e diventerebbe un mostro; se fosse solo tessuto, si dissolverebbe e si affloscerebbe.
Così è la settimana del credente.
Ha bisogno del settimo giorno come di una nervatura che sostiene i sei giorni: guai se la settimana fosse priva di questo alimento; ma guai se si ignorasse il profano chiudendosi in un misticismo evanescente!
In questa luce si comprende il monito dei profeti biblici che bollavano l'osservanza meramente rituale del sabato: il rito senza la vita è farsa, la liturgia domenicale senza giustizia negli altri sei giorni è magia. «Non posso sopportare delitto e solennità», afferma il Signore in Isaia (1,13). E Gesù dichiarerà in modo lapidario che è il sabato che è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato (Marco 2,27) e non esiterà a guarire malati anche di sabato, pur compiendo un'azione apparentemente vietata dalle normative citate sul riposo sabbatico. Non per nulla nella seconda versione che è offerta dalla Bibbia riguardo al Decalogo, quella presente nel capitolo 5 del Deuteronomio, si invita a ricordare nel giorno di sabato la libertà donata da Dio in occasione dell'esodo dalla schiavitù egiziana: «Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno del sabato» (Deuteronomio 5,15). Commentava uno studioso tedesco, Hans W. Wolff: «Ogni sette giorni Israele deve ricordarsi che il suo Dio è un Dio liberatore, il quale pose fine a una dura schiavitù e che continua a ergersi contro tutte quelle potenze che vogliono opprimere il suo popolo».
«Santificare la festa» è, quindi, prima di tutto santificare se stessi, sostare per contemplare Dio e per penetrare nella propria coscienza, ritrovare la carica per rientrare nei giorni feriali in modo più puro e generoso. Come diceva il bel documento di Giovanni Paolo Il Dies Domini, pubblicato il 31 maggio 1998, la festa dev'essere per il cristiano dies Domini, dies Christi, dies Ecclesiae, dies hominis, dies dierum, cioè «giorno del Signore, di Cristo, della Chiesa, dell'uomo e giorno dei giorni».
Queste espressioni illuminano l'intreccio tra "verticalità" (il sacro e il divino) e "orizzontalità" (quotidianità, concretezza, umanità e fraternità) del giorno festivo. È, perciò, con particolare calore che raccomandiamo la lettura di quella bella Lettera apostolica che cerca di far riscoprire il senso perduto della festa e che potrà essere meditata attraverso una delle varie edizioni reperibili presso una libreria religiosa.
Noi vogliamo concludere questo commento al terzo comandamento con due note ulteriori, desunte come spunto da quel testo pontificio. La prima riguarda proprio la caratteristica della "domenica" come giorno del culto (il termine di origine latina, come è noto, significa "giorno del Signore"). Cerchiamo di esprimere questo aspetto, che potrebbe essere tratteggiato in molteplici forme, attraverso una poesia di Carlo Betocchi (1899-1986), intitolata suggestivamente Messa piana: (Quando vado alla messa spesso non prego, / guardo. Sono come un bambino. Guardo, / e credo. E il Signore mi dice (con povere fiammelle di candela, mutamente entro me, nel mio guardare), / - Bravo, hai fatto bene a venire. E al segreto consenso la coscienza / s'indebita, riconoscente. E mormora: Basta; così sian tutti, tutti oramai, con me. / Anche quei pochi a cui ho fatto del bene. E solo mi lascino, / taciti, solo nel mio guardare».
Spesso nei suoi versi questo poeta torinese, formatosi e vissuto a Firenze, ha lasciato fremere l'ansia spirituale, nel quotidiano ha fatto provare i brividi della trascendenza. Questa sua testimonianza, certo, non deve essere considerata come una guida alla celebrazione eucaristica che deve comprendere il canto, la preghiera, la lettura, l'ascolto, la coralità. Tuttavia c'è un aspetto che è altrettanto fondamentale e che viene spesso ignorato: la liturgia è "spettacolo" nel senso nobile del termine, è un guardare dei segni che ci devono parlare dell'Altro, di un Oltre che supera la storia. La preghiera domenicale come meta terminale deve avere il silenzio della contemplazione pura, dell'adorazione, dell'abbandono sereno, pacato e placato da Dio. «Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono», dirà Giobbe al termine del suo lungo e travagliato itinerario umano e spirituale (42,5). Sarebbe importante creare sempre uno spazio libero e puro di contemplazione, una vera e propria oasi dello spirito. E questo non solo per il credente, ma per ogni uomo che vuole ritrovare se stesso estraendosi dalla superficialità e dalla frenesia della vita. «Guardo, e credo», dice Betocchi. Essere aperti al mistero che si manifesta e sentire anche noi quelle parole tenere e semplici che Dio ci rivolge: «Bravo, hai fatto bene a venire». C'è però un'altra considerazione che vogliamo proporre ai nostri lettori a margine del terzo comandamento. In un testo giudaico antico, la Vita di Adamo ed Eva, si legge questa frase: «il settimo giorno è il segno della risurrezione e del mondo futuro». Un filosofo mistico ebreo contemporaneo, Abraham J. Heschel (1907-1972), in una sua opera intitolata Il sabato. Il suo significato per l'uomo moderno (Rusconi 1972), affermava che «il settimo giorno fornisce nel tempo un assaggio di eternità« attraverso la preghiera, il silenzio e la serena contemplazione. Nella Genesi si racconta che l'uomo fu creato come vertice del creato, ma lo fu nel sesto giorno, e noi sappiamo che il sette è la cifra della perfezione, il sei è segno del limite e dell'imperfezione. Ebbene, attraverso la fede e la liturgia del settimo- giorno l'uomo può gustare il "tempo" di Dio, il suo riposo di pace e di luce.
«Quando giungerà la nostra ora, moriremo rassegnati e lassù diremo che abbiamo sofferto, abbiamo pianto, che la nostra vita è stata così amara, e Dio avrà compassione di noi, e tu ed io, zio, zio caro, conosceremo una vita radiosa, stupenda, meravigliosa. La gioia ci riempirà e noi considereremo con un sorriso commosso la nostra presente infelicità, e riposeremo. Riposeremo! Tu non hai mai conosciuto la gioia in tutta la tua vita, ma aspetta, zio Vanja, aspetta... Riposeremo, riposeremo!».
Forse qualche lettore ha riconosciuto in queste parole e nel nome del personaggio la finale del dramma Zio Vanja composto da Anton Cechov nel 1896 e rappresentato la prima volta nel 1899. I due colpi di pistola destinati al suicidio vanno a vuoto e il protagonista rimane ancora in vita, ricevendo l'appello a sperare oltre la stessa esistenza e la morte.
A sperare in quel riposo che darà tregua a ogni esistenza travagliata.
È curioso notare che in russo la domenica è espressa col vocabolo voskreséné, che letteralmente significa "risurrezione". Il cristiano ogni domenica celebra la risurrezione di Cristo e professa la sua fede nel destino ultimo che l'attende, quel "riposo eterno" a cui sopra abbiamo già accennato, una "vita radiosa, stupenda, meravigliosa", come dice Cechov, perché sarà trasfigurazione del nostro essere in una nuova e perfetta creazione. È per questo che il pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer, mentre stava andando incontro al martirio sotto i nazisti, che l'avrebbero impiccato il Sabato Santo del 1945, aveva esclamato: «Riposo di Dio, tu vieni incontro ai tuoi fedeli come una sera di festa immensa!».

«Onora il padre e la madre»

Il quarto comandamento


Nel 1997 Rizzoli ha pubblicato un volume lapidariamente intitolato Decalogo. In esso un critico letterario, Arnaldo Colasanti, vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti, aveva convocato dieci scrittori italiani invitandoli a "narrare" ciascuno un comandamento del Decalogo. Sono, così, sorti racconti diversi per genere, qualità e pertinenza che cercano di attualizzare quelle antiche parole. Così il "Non avrai altro Dio fuori di me" è riportato da Aurelio Picca all'interno di un ospedale ove una nonna vive le sue ultime ore, mentre Erri De Luca rappresenta il "Non desiderare la donna d'altri" attraverso la storia personale di una brigatista irriducibile e Luca Doninelli nel "Non uccidere" introduce la giornata di un killer. Il terzo comandamento è offerto da Linda Ferri nel racconto "Il tempo che resta" da un'angolatura particolare, quella di una donna gravemente malata che vive il suo ultimo compleanno.
Potremmo continuare in questa esemplificazione narrativa per tutti i comandamenti. Vogliamo, invece, segnalare solo un dato generale che tocca in modo particolare il quarto comandamento che ora presentiamo: è necessario soffiar via dal Decalogo la patina polverosa, arcaizzante e "da vecchio confessionale" odorante di muffa. Esso, come aveva a suo tempo insegnato Enzo Biagi con la sua trasmissione televisiva dedicata ai dieci comandamenti, colpisce la permanente e costante quotidianità, cioè l'universalità dell'uomo e della donna nella sua essenza profonda e nelle sue relazioni capitali.
Ecco, il quarto comandamento apparentemente sembra arroccarsi su una remota fortezza patriarcale ove domina il "Padre padrone", per usare il famoso titolo del libro autobiografico di Gavino Ledda, divenuto un fortunato film dei fratelli Taviani. In questa lettura letteralista del precetto è facile far esplodere la reazione di ribellione, ben espressa dal paradossale "Disonorate il padre!", motto ideale della contestazione di qualche tempo fa.
In realtà, come vedremo, il comandamento ben più "moderno" e universale, una volta compreso andando "al di là del versetto" , cioè della lettera, come usava dire il filosofo francese israelita Emmanuel Lévinas. Un altro filosofo, il tedesco Martin Heidegger, ci ammoniva che "interpretare è dire il non detto" di un testo, cioè andare oltre la superficie scavando nella profondità del significato ultimo e recondito. Tuttavia dobbiamo partire dal dettato della pagina biblica. In essa leggiamo questo appello: Onora tuo padre e tua madre, come il Signore tuo Dio ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nella terra che il Signore tuo Dio ti dà. Così si legge nel Decalogo del libro biblico del Deuteronomio (5,16), mentre nell'altra redazione, quella dell'Esodo (20,12), si ha in modo più essenziale: Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni nella terra che il Signore tuo Dio ti dà.
Notiamo innanzitutto che questo è, col terzo riguardante il riposo festivo, un comandamento esposto in forma positiva, a differenza degli altri precetti del Decalogo martellati da un severo "Non", seguito dall'imperativo della proibizione. Inoltre l'unico comandamento ad essere seguito da una benedizione (la vita lunga e felice). Questo fatto indica il rilievo attribuito all'"onorare" i genitori. È altrettanto significativo notare che, nonostante l'antica società patriarcale maschilista, padre e madre sono messi sullo stesso piano come degni di tutela e rispetto, cosa che non accade, ad esempio, in uno dei testi fondamentali del diritto dell'antico Vicino Oriente, il celebre Codice di Harnmurabi (verso il 1750 a.C.). Il verbo centrale è quell'"onorare", in ebraico kabbed, che merita particolare attenzione per il suo valore specifico che va ben oltre l'obbedienza o il vago rispetto.
Si pensi, infatti, che lo stesso verbo viene usato per esprimere anche la "venerazione" nei confronti di Dio e quindi il culto e la vita religiosa, tant'è vero che nel libro del profeta Malachia si appaiano i doveri verso Dio e verso i genitori: «Il figlio onora suo padre e il servo rispetta il padrone. Se io sono padre, dov'è l'onore che mi spetta?... Dice il Signore degli eserciti (1,6). Ma c'è anche una dimensione molto concreta in questo verbo "onorare" e che può essere sintetizzata nell'obbligo del sostentamento dei genitori. Scriveva uno studioso della Bibbia, Antonio Bonora: «In una società dove gli anziani non godevano dell'assicurazione o della pensione, i figli devono dare l'"onorario" ai genitori vecchi, cioè garantire loro il sostentamento, il necessario per vivere e, alla loro morte, anche un'onorevole sepoltura .
Su questa scia devono essere allegati altri testi biblici che sottolineano vari aspetti degli obblighi derivanti dal quarto comandamento. Si noti, ad esempio, la durezza con cui l'antico Israele biblico condannava la violazione di questi obblighi: «Colui che percuote suo padre o sua madre sarà messo a morte. Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte (Esodo 21,15-17). Il profeta Ezechiele si lamenta con la città di Gerusalemme perché «in te si disprezza il padre e la madre» (22,7). Nel libro dei Proverbi si condanna «l'occhio che guarda con scherno il padre e disprezza l'obbedienza della madre (30,17) o «chi deruba il padre o la madre, dicendo: Non peccato! Ebbene, costui è compagno dell'assassino (28,24); si colpisce anche «chi rovina il padre o fa fuggire la madre, rivelandosi un figlio disonorato e infame (19,26); «chi maledice il padre e la madre vedrà spegnersi la sua lucerna nel cuore delle tenebre (20,20). In sintesi si esorta ad «ascoltare tuo padre che ti ha generato e a non disprezzare tua madre quando è vecchia» (23,22).
Forte e lapidario il monito del libro del Deuteronomio: «Maledetto chi maltratta il padre e la madre!» (27,16), addolcito dal Levitico: «Ognuno rispetti sua madre e suo padre (19,3). Ma  è un sapiente biblico vissuto nel II sec. a.C., il Siracide, a offrire il più intenso e appassionato commento al quarto comandamento: «Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli, ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati; chi riverisce la madre come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi riverisce il padre vivrà a lungo; chi obbedisce al Signore dà consolazione alla madre. Chi teme il Signore rispetta il padre e serve come padroni i genitori. Onora tuo padre a fatti e a parole, perché scenda su di te la sua benedizione. La benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta. Non vantarti del disonore di tuo padre, perché il disonore del padre non è gloria per te: la gloria di un uomo dipende dall'onore del padre, vergogna per i figli una madre nel disonore. Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati. Nel giorno della tua tribolazione Dio si ricorderà di te; come fa il calore sulla brina, si scioglieranno i tuoi peccati» (3,2-16).
Anche Gesù sarà severo nei confronti di ogni violazione di questo comandamento, soprattutto quella codificata dalla tradizione giudaica e nota sotto il termine qorban ("realtà sacra"). Ipocritamente si dedicava in voto a Dio una cifra, così da essere esentati dal dovere del sostentamento dei genitori anziani. Gesù con veemenza dichiara: «Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione? Dio ha detto: Onora il padre e la madre e inoltre: Chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Invece voi asserite: Chiunque dice al padre o alla madre: Ciò con cui ti dovrei aiutare è offerto a Dio, non è più tenuto a onorare suo padre o sua madre. Così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti!» (Matteo 15,3-7).
Sulla duplice dimensione che il rapporto padri-figli comporta interviene, invece, Paolo quando agli Efesini scrive: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra» (6, 1-3). Proprio sulla base delle parole dell'Apostolo, dobbiamo scavare più in profondità in questo comandamento per scoprire l'ampiezza del suo orizzonte.
Giustamente uno studioso, J. Becker, osservava che il comandamento sui genitori è soltanto la punta di un iceberg. La famiglia, infatti, rappresenta anche altre forme naturali di comunità e di autorità, soprattutto la comunità del popolo.
È per questo che del quarto comandamento sono possibili altre interpretazioni più estensive e persino attuali. C'è innanzitutto quella sociale che vede nei genitori il simbolo del retto funzionamento delle relazioni familiari, tribali, comunitarie e, quindi, dell'intera vita socio-politica. In questa luce il precetto esalta il diritto-dovere di partecipare alla costruzione di una società armonica e giusta.
C'è un'altra dimensione che potremmo chiamare tradizionale. I genitori incarnano la generazione precedente coi suoi valori che devono essere trasmessi e attualizzati. Nell'onore da rendere ai genitori è, allora, implicito anche il riconoscimento della loro funzione di maestri, di tutori della tradizione, dell'eredità morale di una famiglia e di un popolo, dei valori spirituali e religiosi. L'onore reso ai genitori in questa luce dovrebbe contribuire a edificare una società sana e coerente. Per questo è grave la responsabilità del genitore come maestro: egli non deve lasciarsi tentare dallo scimmiottare i giovani ignorando la sua missione. Purtroppo, come notava il filosofo Friedrich W. Nietzsche, «i più grandi sbagli nel giudicare una persona li fanno proprio i suoi genitori», incapaci di educarla. C'è, quindi, nel comandamento un cenno implicito anche alla responsabilità del padre e della madre che, come diceva il Concilio Vaticano II, «devono essere per i figli primi maestri della fede (Lumen Gentium n. 11). Il poeta latino Giovenale (I sec. d.C.) scriveva: «I vizi che i genitori trasmettono ai figli sono numerosissimi. I cattivi esempi che vengono dalla famiglia corrompono più in fretta e più a fondo, perché penetrano nell'animo attraverso modelli autorevoli».
Infine, lo studioso tedesco R. Albertz ha identificato nel quarto comandamento una dimensione che chiameremo psico-fisica: il figlio, ormai autonomo e adulto, divenuto a sua volta responsabile della patria potestà, invitato a sostenere moralmente ed economicamente i genitori, radici della sua vita, mentre oramai essi si avviano verso il viale del tramonto. È questo un capitolo particolarmente rilevante per la nostra società che assiste all'invecchiamento di strati sempre più vasti e si trova impreparata a seguire e ad assicurare una vita dignitosa all'anziano. Certi ricoveri, simili a lazzaretti, la stessa realistica diminuzione delle forze lavorative giovani, l'allungamento dell'età media della vita, la frenesia dell'esistenza moderna rendono sempre più importante e spesso drammatica la riflessione e l'impegno che promanano da questo precetto decalogico. Ma il discorso s'allargherebbe a dismisura coinvolgendo aspetti etici, economici, psicologici, politici e sociologici. Noi ci accontentiamo di concludere col detto amaro dello scrittore inglese Oscar Wilde: «I figli cominciano con l'amare i loro genitori; quando crescono li giudicano e il più delle volta li dimenticano».

«Non uccidere!»

Il quinto comandamento:



Lapidario e potente nella sua formulazione imperativa, il quinto comandamento esalta la sacralità della vita umana. Già la prima alleanza che si era stipulata tra Dio e la nuova umanità, generata dal lavacro purificatore del diluvio e incarnata emblematicamente da Noè, era retta da questa clausola: «Chi sparge il sangue dell'uomo / dall'uomo il suo sangue sarà sparso, / perché a immagine di Dio / Egli ha fatto l'uomo» (Genesi 9,6). È facile comprendere come, al di là del dettato così essenziale ed elementare del comandamento, si annodino tra loro tante questioni complesse, divenute ancor più incandescenti e aggrovigliate ai nostri giorni: pensiamo solo all'aborto, all'eutanasia, alla pena di morte, alla guerra...
Ovviamente non ci è possibile in questo breve saggio su un tema così delicato costruire una sistematica e completa "morale della vita" o bioetica. Ci accontenteremo, perciò, di illustrare la base di questo precetto e al massimo di fare una sola applicazione concreta a mo' di esempio, per quanto concerne la legittima difesa. Partiamo, dunque, dalla frase biblica che in ebraico suona così: Lo tirsah (Esodo 20,13). Gli studiosi da tempo hanno fatto notare una cosa curiosa: il verbo usato per indicare l'"uccidere" non è quello comune, ma il raro rasah (si pronuncia, però, razah con una z aspra) che di per sé dovrebbe essere reso come se fosse un "commettere assassinio". E qui ci imbattiamo in una questione capace di sollevare ai nostri occhi anche qualche imbarazzo.
Ciò che il quinto comandamento nel suo tenore letterale condanna in modo inequivocabile è l'azione violenta su un soggetto privo di difesa. Pensiamo, tanto per fare un paio di esempi biblici, innanzitutto all'orribile uccisione per stupro collettivo compiuta dagli abitanti del villaggio di Gabaa nei confronti della seconda moglie di un levita ospite in quel piccolo centro della tribù ebraica di Beniamino. Quella povera vittima riesce solo a trascinarsi fino alla soglia della casa ove era ospitato il marito, per morire. All'alba il levita, di fronte a questo delitto orrendo, reso ancor più grave dalla violazione del diritto orientale di ospitalità, prenderà quel cadavere, lo porterà a casa sua nella regione montuosa centrale di Efraim e lo taglierà "membro per membro, in dodici pezzi. spedendoli poi a tutto Israele", cioè alle dodici tribù ebraiche perché, di fronte a questa "lettera" di carne e di sangue, reagissero in modo sdegnato. Si legga l'intera vicenda nell'impressionante cap. 19 del libro biblico dei Giudici.
Un altro esempio clamoroso di violazione del precetto "Non uccidere" nel senso sopra indicato sarebbe l'assassinio perpetrato dalla coppia regale Acab e Gezabele: il contadino Nabot, che non vuole vendere il terreno dei padri sito presso il parco della villa estiva del re, con un processo-farsa è condannato a morte così da poter annettere quell'appezzamento ai possedimenti del sovrano. Nel silenzio timoroso e complice dei sudditi si leva solo la voce del profeta Elia che - nel racconto del cap. 21 del Primo Libro dei Re - urla al sovrano: «Hai assassinato e ora usurpi! Per questo ti dice il Signore: Nel punto ove lambirono il sangue del contadino Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue» (versetto 19). Similmente nel libro del Deuteronomio si legge: «Maledetto chi uccide (rasah) il suo prossimo indifeso!» (27,24).
Tuttavia - e questo è l'elemento imbarazzante e fin "scandaloso" - nell'Antico Testamento ci sono casi in cui le uccisioni non sono condannate, anzi, sono per certi versi raccomandate o imposte: pensiamo alla cosiddetta "guerra santa", che comprendeva la strage e la distruzione radicale dei nemici (l'"anatema", in ebraico herem); oppure pensiamo alla pena di morte, che è sancita in alcuni casi in modo formale, o ancora alla "legge del taglione" che all'offesa risponde con un'offesa proporzionata e all'omicidio con un atto parallelo per ristabilire la giustizia. È per queste importanti eccezioni che nel quinto comandamento si usa il verbo specifico rasah e non quello più ampio e generale riguardante le uccisioni.
È stato spiegato a più riprese dagli studiosi che questi limiti dell'Antico Testamento sono legati a un dato fondamentale della Bibbia. Essa non è una collezione di tesi teologiche e morali perfette e atemporali, come sono i teoremi di geometria, bensì la storia di una manifestazione di Dio all'interno delle vicende umane. È, dunque, un percorso lento di illuminazione dell'umanità perché esca dalle caverne dell'odio, dell'impurità, della falsità e s'incammini verso l'amore, la coscienza limpida e la verità. S. Agostino definiva appunto la Bibbia come "il libro della pazienza di Dio" che vuole condurre gli uomini e le donne verso un orizzonte più alto. Si legge, infatti, nel libro della Sapienza: «Prevalere con la forza a te, Signore, è sempre possibile perché nessuno può opporsi alla potenza del tuo braccio... Eppure tu risparmi tutte le cose perché sono tue, Signore, amante della vita... Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini» (11,21-26; 12.19).
È per questo che già nell'Antico Testamento si hanno pagine di condanna aspra della violenza.
Si legge nel Levitico: «Non coverai nel tuo cuore odio contro tuo fratello... Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso» (19,17-18). Anche per quanto riguarda la pena di morte - che ancor oggi è praticata da ben 76 Stati, tra i quali spiccano in un triste e tristo primato la Cina (1.876 esecuzioni nel 1997) e gli Stati Uniti (68 esecuzioni nel 1998), come risulta dal dossier La pena di morte nel mondo, edito da Marsilio - si hanno riserve significative.
Pensiamo a quella frase che si legge in Genesi 4,15 e che è divenuta il motto del movimento "Nessuno tocchi Caino" contro la pena di morte: «Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato». Anche la vita del criminale è sotto la giurisdizione esclusiva e suprema di Dio, proprio per il carattere trascendente dell'uomo e della donna, creati «a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,26-27). Contro le tentazioni forcaiole che stanno risorgendo ai nostri giorni, anche in Italia, la patria di Cesare Beccaria, il grande antesignano dell'abolizionismo con la sua opera Dei delitti e delle pene (1764), bisognerebbe ricordare ai credenti le parole divine riferite dal profeta Ezechiele: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? Io non godo della morte di chi muore!» (18,23-32).
Ma il progressivo sviluppo del quinto comandamento verso la condanna di ogni uccisione e violenza raggiungerà il suo vertice con Cristo. Certe sue parole sono più taglienti di quella spada che egli ha ordinato a uno dei suoi discepoli di rimettere nel fodero, dopo aver troncato l'orecchio del servo del sommo sacerdote, nella notte drammatica dell'arresto di Gesù al Getsemani: «Rimetti la spada nel fodero perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Matteo 26,52). Cristo, infatti, nel suo celebre "Discorso della Montagna" aveva esplicitamente dichiarato: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio: anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello; e se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne due con lui... Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori!» (Matteo 5,38-44). Tuttavia, lasciando da parte le ormai obsolete disquisizioni sulla guerra giusta e ingiusta, c'è da comporre queste parole di Gesù con la tradizionale dottrina della legittima difesa alla quale anche il recente (1992) Catechismo della Chiesa Cattolica riserva un intero capitoletto (nn. 2263-2267). Inoltre, nel n. 2243 dello stesso documento, si affronta anche la resistenza all'oppressione del potere politico e nei nn. 2302-2317 si ha una forte apologia della pace, osservando però che «si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare». È in questo testo della Chiesa che ritroviamo un passo famoso della Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino (Il-II, 64,7): «Se per difendersi si esercita una violenza più grande del necessario, questo sarà illecito. Ma se si respinge la violenza in modo misurato, è lecito... L'azione di difendersi può causare un duplice effetto: l'uno la conservazione della propria vita, l'altro la morte dell'aggressore. Il primo soltanto è voluto: il secondo non lo è».
Al di Ià della difficoltà dell'applicazione equilibrata e corretta della regola tomistica (e classica) dell'autodifesa, come comporla col principio evangelico della non-violenza assoluta? La risposta è proprio nella struttura della fede cristiana legata all'Incarnazione e quindi alla storia, struttura a cui si faceva già sopra cenno. I principi devono essere "incarnati" nella concretezza dei casi che spesso sono molto più intricati e complessi (si pensi - per fare un esempio di altro genere - all'appello evangelico alla povertà, al distacco, alla condivisione dei beni all'interno di una società economica com'è l'attuale). Si devono, perciò, trovare vie meno dannose per il principio ma anche compatibili con determinati contesti speciali e particolari.
Così si può ammettere una reazione di difesa nel caso in cui essa sia l'unica strada possibile per impedire l'aggressione, l'ingiustizia, l'oppressione: l'atto violento è finalizzato non a punire l'aggressore, ma a farlo desistere e a bloccarlo. In situazioni eccezionali è, dunque, da considerarsi legittimo il ricorso alla forza purché esso sia per la difesa dei diritti dei deboli, e non per incrementare inimicizie e odio, quanto piuttosto per estinguerli. Riconosciuta la legittimità di questa tutela di sé e dei valori della persona (vita e libertà) - legittimità fondata anche sul principio dell'"amare il prossimo come se stessi" (esiste, quindi, un lecito "amare se stessi") È, però, necessario per il cristiano ribadire con forza il principio dell'"amare il nemico" e, quindi, della non-violenza. È ciò che anche S. Paolo faceva scrivendo ai Romani: «Vinci il male con il bene!» (12,21). È ciò che Giovanni Paolo II fa sistematicamente coi suoi appelli alla «pace possibile, doverosa, necessaria» e alle vie alternative della trattativa, soprattutto in un contesto politico così complesso com'è l'attuale.
Anche se apparentemente "utopica" e, proprio per questo, tesa verso un superamento costante delle situazioni concrete, la non-violenza è, in realtà, molto più efficace di quanto politici e militari vogliono farci credere: basti solo pensare a Gandhi o a Martin L. King. In un mondo che spesso sbrigativamente si orienta verso soluzioni di morte, di violenza, di prevaricazione, il seme e il lievito di questo principio cristiano devono essere ancora deposti nel terreno della storia. In questa luce il quinto comandamento acquista un rilievo altissimo nella sua forma più pura e assoluta. Esso si trasforma in un vigoroso appello alla coscienza degli individui e dei popoli (non solo cristiani), come ci ha ricordato Giovanni Paolo Il nell'enciclica Evangelium Vitae. Purtroppo, infatti. osservava il Papa, «il XX secolo verrà considerato un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. l falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile».
Dobbiamo, allora, con coraggio ribadire la tutela della vita umana in tutti i suoi gradi e forme e dobbiamo estirpare da noi stessi il seme velenoso dell'odio. Il famoso predicatore domenicano e scrittore Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861) ammoniva: «Volete essere felici per un istante? Vendicatevi! Volete essere felici per sempre? Perdonate!».


«Non commettere adulterio»

Il sesto comandamento


Alla fine dello scorso anno, quasi a suggello dell'evento giubilare, il Teatro di Roma ha messo in scena, con la regia del suo stesso direttore artistico Mario Martone, l'opera I dieci comandamenti di Raffaele Viviani, un autore (e attore) di commedie e drammi popolati da efficacissime macchiette, desunte da quell'arsenale di figure, personaggi, vizi e virtù che è da sempre Napoli (Viviani, infatti, era nato a Castellammare di Stabia nel 1888 ed era morto a Napoli nel 1950). Ancora una volta, sia pure sotto il velo dell'ironia bonaria e del colore, quelle dieci parole sacre e antiche sono tornate ad essere segno di moralità e divieto di immoralità.
Nel nostro itinerario all'interno del Decalogo siamo giunti ormai al sesto comandamento che noi tutti abbiamo in mente nella formulazione che non corrisponde all'originale biblico. Infatti, interrogati sul contenuto di questo comandamento, risponderemmo così: «Non commettere atti impuri!». Questo, tra l'altro, era il titolo di un filmettino che il regista Giulio Petroni aveva girato nel 1972, nella linea di quel "pecoreccio" nazionale allora in voga. Qualche lettore più anziano ricorderà anche la più paludata formulazione attraverso un verbo ormai obsoleto: «Non fornicare!». Il concetto era, comunque, sempre chiaro: siamo in presenza della cosiddetta morale sessuale, delle sue spesso complicate articolazioni che corrispondono alle altrettanto complicate e molteplici perversioni sessuali (basterebbe solo sfogliare l'ormai datata ma emblematica Psychopatia sexualis di Kraft-Ebing o, al contrario, i vecchi manuali di morale sessuale).
Senza voler accantonare questo aspetto, il precetto decalogico ha, però, un contenuto primario che è ben espresso nella versione «Non commettere adulterio». Nell'originale ebraico del comandamento nel libro biblico dell'Esodo (20,14) o in quello parallelo del Deuteronomio (5,18) ci incontriamo con un verbo piuttosto raro e "tecnico", na'af: esso non si riferisce all'area sessuale generale bensì a quella specifica del matrimonio.
Noi abbiamo già avuto occasione di dire che i comandamenti decalogici sono formulati all'imperativo negativo apodittico: «Non fare ...!». In realtà, nel linguaggio semitico, essi non hanno solo la funzione di vietare un comportamento in modo netto ma anche di stimolarne in forma altrettanto marcata l'aspetto positivo.
Nel nostro caso, allora, avremmo l'esaltazione del matrimonio, dei suoi diritti e della sua dignità. Ma prima di sviluppare questa dimensione positiva, facciamo un cenno al rovescio oscuro della medaglia, cioè l'adulterio che qui viene chiaramente condannato. Certo, noi sappiamo che la Rivelazione biblica non è una sequenza di perfetti teoremi teologici ma è "incarnata" nella storia e, quindi, ha una sua evoluzione verso mete più alte. Ora, se consideriamo la legislazione matrimoniale dell'Antico Testamento, ci troviamo di fronte a vari condizionamenti legati a quella cultura e a quella società antica.
Così, data la concezione maschilista dell'antico Vicino Oriente, in quelle norme la donna è sfavorita e la presunzione di colpa cade prima di tutto su di lei. È ovvio che in tale prospettiva non viene colpita seriamente la relazione dell'uomo sposato con una nubile o una prostituta. Inoltre, come è noto, vigeva l'istituto del divorzio che aveva una codificazione nel libro del Deuteronomio: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa» (24,1).
Non c'è bisogno di insistere sull'evidente condizione di sfavore in cui si veniva a trovare la moglie in questa procedura sbrigativa e basata su una motivazione così generica e aleatoria ("non trovar grazia agli occhi" del marito, oppure "trovare qualcosa di vergognoso" nella donna).
La tradizione giuridica successiva del giudaismo cercherà di precisare questi commi, attestandosi su due fronti antitetici, quello rigoristache ammetteva il divorzio solo in caso di adulterio e quello lassista che lo concedeva per qualsiasi giusta causa, compresa una minestra scotta e la noia di vedere sempre la stessa faccia! Inoltre, non essendo soggetto giuridico riconosciuto, la donna non solo non poteva aprire una causa di divorzio ma neppure appellare contro una sentenza di scioglimento del suo matrimonio. Si capisce allora la reazione di Gesù che vuole riportare il matrimonio alla sua dignità e grandezza originaria di donazione totale d'amore, come insegnava la Genesi («i due saranno una carne sola»): «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Matteo 19,8).
Il sesto comandamento, sia pure coi limiti contestuali a cui si è fatto cenno, contiene una netta condanna dell'adulterio. Naturalmente, in un contesto tribale, questa normativa era orientata a tutelare non solo la compattezza del clan familiare ma anche la legittimazione dei discendenti a livello giuridico e a fini ereditari. Quella che i credenti considerano Parola di Dio rivela, così, un volto concreto che non dobbiamo disprezzare: è il tentativo di salvaguardare al minimo alcuni valori, nella speranza di comprendere la debolezza umana e di spingerla verso traguardi più alti.
E questi traguardi più alti sono delineati in pagine di straordinaria intensità e fragranza. Pensiamo solo allo splendore del Cantico dei Cantici che è la celebrazione dell'"amore forte come la morte" (8,6) e della donazione totale e assoluta che compie in pienezza l'aspetto positivo del comandamento: «Il mio amato è mio e io sono sua... lo sono del mio amato e il mio amato è mio», proclama la donna del Cantico (2,16; 6,3). I profeti andranno oltre ed esalteranno nell'amore nuziale un nuovo valore, quello di essere simbolo dell'amore divino per l'umanità. Si provi a leggere alcune di queste pagine profetiche, a partire dalla storia autobiografica di Osea (capitolo 2) e del suo travagliato amore per Gomer, per passare poi a Geremia (2,2; 31,3), alla forte e mirabile parabola del capitolo 16 di Ezechiele, per giungere al capitolo 54 di Isaia...
Noi vorremmo citare ora solo due passi in modo semplificato. Il primo è nel libro di Isaia, anche-se gli studiosi ritengono che si tratti di un testo composto due secoli dopo, nel VI sec. a.C., ad opera di un profeta anonimo ed entrato nel grande "rotolo" delle profezie isaiane. Dio si rivolge al suo popolo e lo considera come la donna amata e sposata e il profeta commenta: «Sì, come un giovane sposa una ragazza, così ti sposerà il tuo Creatore; come gioisce lo sposo per la sua sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (62,5). L'altro testo appartiene, invece, al Nuovo Testamento ed è spesso letto nelle celebrazioni nuziali. Paolo, scrivendo ai cristiani di Efeso, vede nel matrimonio cristiano «un mistero grande, in riferimento a Cristo e alla Chiesa», per cui «i mariti devono amare le loro mogli come Cristo ha amato la Chiesa» (Efesini 5,25-32). C alla luce di questa prospettiva che la Chiesa cattolica ha riconosciuto sempre al matrimonio cristiano la dignità di sacramento: l'unione d'amore tra l'uomo e la donna nella sua pienezza porta il sigillo della grazia e della presenza di Dio.
A questo punto dobbiamo riservare un cenno anche alla lettura tradizionale del comandamento che - come si diceva - è stato esteso a tutta la morale sessuale. II matrimonio è, infatti, considerato dalla Bibbia come il simbolo di tutte le relazioni interpersonali ed è per questo che sottoquel profilo si possono esplicitare valori e limiti, virtù e vizi dei rapporti tra persone. A questo proposito dobbiamo sottolineare che la Bibbia considera la coppia maschio-femmina come alla base della sua antropologia. Significativo è il passo di Genesi 1,27 ove si dichiara che «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». L'"immagine" divina stampata nell'uomo si attua nella bipolarità sessuale e non certo perché Dio abbia accanto a sé una dea, come volevano le religioni circostanti a Israele, ma perché l'amore fecondo tra uomo e donna rifletteva l'amore creatore del Signore (nella pagina biblica si descrive, infatti, la creazione).
In questa luce si deve collocare il giudizio morale sulla omosessualità secondo la Bibbia. Certo, la Sacra Scrittura non considera le implicazioni psicologiche, le dimensioni più complesse e altri temi sviluppati dalla riflessione teologica successiva. Inoltre alcuni passi considerati classici sul tema sono da usare con riserva perché l'autore sacro ha di mira prima di tutto la condanna di un altro peccato. E il caso del testo che ha dato origine al termine "sodomia", cioè il capitolo 19 della Genesi, ove alcuni abitanti di Sodoma chiedono a Lot di consegnare loro gli ospiti "angelici" 'perché possiamo abusarne': la condanna della Bibbia cade prima di tutto e soprattutto sulla violazione della legge sacra dell'ospitalità (implicitamente c'è anche l'orrore per i culti idolatrici degli indigeni della Palestina che comprendevano l'omosessualità sacra con sacerdoti chiamati dalla Bibbia "cani" o "prostituti sacri").
Tuttavia esiste nelle Sacre Scritture anche un discorso più diretto ed esplicito sulla questione omosessuale. Nel libro legislativo del Levitico, il terzo della Bibbia, si legge: «Non avrai relazioni con un maschio come si hanno con una donna: è un abominio!» (18,22). Agli omosessuali colti in flagrante si commina la pena di morte (20,13), che aveva anche un valore religioso: era una (discutibile e deprecabile per noi ora) forma di "scomunica" dalla comunità santa. Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, in una lista di vizi che escludono dal Regno di Dio introduce anche i malakoi, gli "effeminati", cioè il partner omosessuale passivo, e gli arsenokoitai, cioè gli omosessuali attivi (1 Corinzi 6,9-10), mentre nella Prima Lettera a Timoteo aggiunge nella condanna anche i sequestratori di ragazzi per pedofilia (1,10).
È ancora l'Apostolo nella Lettera ai Romani a ricordare che dalla decadenza religiosa nasce la perversione morale e menziona anche questo peccato: «Le donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini» (1,26-27). La degenerazione religiosa e morale trascina con sé una serie di vizi e di appannamento di ogni sensibilità etica.
Questo è anche il messaggio del sesto comandamento per quanto riguarda l'orizzonte sessuale. E l'appello a ritrovare nelle relazioni tra uomo e donna la trasparenza e la ricchezza di valori che erano nel disegno del Creatore: la persona umana, infatti, non vive il sesso in modo meramente fisiologico e istintivo ma lo può trasfigurare in eros, segno di bellezza, e lo può condurre ad essere amore che è donazione e comunione totale. Il sesto comandamento è anche, indirettamente, l'invito a vivere le altre relazioni di amicizia e di comunicazione e le stesse pulsioni fisiologiche e psicologiche all'interno di una visione di armonia, di coerenza, di limpidità, di dominio di sé, di onestà e rispetto.
Il sesto comandamento è, infine, l'esaltazione della famiglia col suo patrimonio di unità nella diversità, di amore e di dialogo. Giovanni Paolo II ha affermato che «quanto più la famiglia è sana e unita, tanto più lo è la società. Al contrario, lo sfacelo della società ha inizio con lo sfacelo della famiglia». È una convinzione che, a livello più generale, già condivideva uno dei maggiori scrittori spagnoli del Novecento, Miguel de Unamuno (18641936) quando dichiarava: «L'agonia della famiglia è l'agonia del cristianesimo».

«Non rubare»

Il settimo comandamento



Nell'ottobre dello scorso anno al Palais des Sports di Parigi un grandioso spettacolo con 54 attori. 250 costumi e imponenti scenografie cinematografiche (il tutto per un costo di 15 miliardi) ha riproposto I dieci comandamenti. A recitare erano stati convocati europei e arabi, ebrei, cristiani e musulmani (la moglie di Mosè, Zippora, era impersonata dalla cantante israeliana Nourith). Regista era Elia Chouraqui che porta lo stesso cognome di uno dei più noti e originali traduttori della Bibbia in francese, l'ebreo algerino e ora israeliano André Chouraqui che proprio quest'anno ha pubblicato presso Mondadori un suo ampio commento a I dieci comandamenti, mostrandone l'insonne presenza in tutte e tre le religioni monoteistiche.
Il nostro viaggio testuale all'interno delle 620 lettere ebraiche che compongono il Decalogo nella loro sostanza imperativa approda ora al settimo precetto che è inciso nella mente di tutti con quel lapidario "Non rubare". Un comando che è sempre stato praticato con molte varianti, come quella suggerita dal titolo di un filmetto americano del 1976 di Ted Kotcheff con Jane Fonda: Non rubare. se non è strettamente necessario. A proposito ancora di spettacoli, ricordiamo che già nel 1932 un film inglese, in cui si fronteggiavano due coppie di ladri, era stato appunto intitolato Settimo: non rubare (regia di Maurice Elvey e Fred Niblo).
Ma ritorniamo per un momento alla rappresentazione musicale parigina. La scena più intensa era quella in cui Mosè, accompagnato dalla madre Jochebed, gridava al faraone: «Lascia andare il mio popolo, restituiscigli la libertà! Lascia partire il mio popolo, lascialo vivere in libertà!». Ora, nell'originale ebraico del settimo comandamento, l'espressione usata, lō' tignōb, si estende a un orizzonte più ampio del furto di oggetti e beni, comprendendo anche il ratto o il sequestro di persona, compiuto in quei tempi durante le razzie. È per questo che già nel 1949 un noto studioso della Bibbia, Albrecht Alt, aveva sostenuto che originariamente il comandamento condannava il rapimento più che la rapina.
Anche noi riteniamo che il senso primigenio e capitale sia questo, così da allineare dal quinto all'ottavo comandamento la sequenza dei diritti fondamentali della persona: la vita, il matrimonio, la libertà, l'onore. La tutela del diritto alla proprietà apparirebbe, invece, nel nono e decimo comando.
Sul tema della libertà è intessuto tutto l'evento dell'esodo dalla schiavitù d'Egitto, come si diceva nella scena teatrale sopra descritta che, tra l'altro, usava espressioni desunte appunto dal libro dell'Esodo, al cui interno è collocato anche il Decalogo (cap. 20). Dovremmo, perciò, prima di tutto esaltare il dono della libertà che già appare agli esordi stessi della creazione allorché l'uomo è posto sotto l'albero della conoscenza del bene e del male, lasciato solo nella sua decisione di accogliere da Dio la morale o di costruirla lui stesso, rapendo il frutto del bene e del male.
È, questa, una visione tipica della Bibbia, a differenza delle culture circostanti (ad esempio, la babilonese) che consideravano l'uomo come l'impasto della polvere del suolo col sangue del dio ribelle Kingu: secondo questa concezione nelle nostre vene non potrebbe che scorrere il male a cui saremmo irrimediabilmente votati. Ben diversa è la persona secondo le Scritture bibliche: «Dio da principio creò l'uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti: l'essere fedele dipenderà dalla tua buona volontà. Dio ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua: là dove vuoi stenderai la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (S'iracide 15,14-17). Il Creatore quasi si ritira per lasciare lo spazio a quella creatura che non ha voluto simile a una stella fissa o a un vegetale ma libera interlocutrice.
Proprio per questo le dittature, le oppressioni politico-sociali ed economiche, le strutture che strappano artificiosamente il consenso, la stessa moderna egemonia della seduzione televisiva, i sistemi subdoli di avvincimento, oltre naturalmente la schiavizzazione economica dei popoli, i sequestri di persona e così via sono crimini non solo sociali ma anche religiosi, non colpiscono solo la morale ma anche la fede, non si configurano soltanto come peccati contro il prossimo ma anche come sacrilegi perché si rivoltano contro il progetto divino. Nella Bibbia sono esemplari, al riguardo, tre vicende: quella, già citata, dell'esodo, quella di Giuseppe venduto dai suoi fratelli (Genesi 37-50) e quella dello schiavo Onesimo che Paolo nella lettera al suo padrone Filemone presenta ormai come figlio e invita ad accogliere «non più come schiavo ma come fratello carissimo» (versetto 16). Significativa è la durezza della sentenza comminata proprio poche righe dopo la pagina del Decalogo: 'Chi rapisce un uomo, che lo abbia venduto o che lo tenga in mano sua, sia messo a morte, (Esodo 21,16).
Come è noto, la pena capitale per l'antico Israele non era solo un (detestabile) mezzo punitivo ma una forma espressiva per indicare la "scomunica" dalla comunità del popolo di Dio per un delitto gravissimo. Il rapimento di persone è equiparato, perciò, nell'antica legislazione biblica, a un omicidio perché aliena la persona del suo bene più prezioso e specifico, la libertà. Come scriveva Anton Cechov (1860-1904) nel suo Uomo nell'astuccio: “Ah, libertà, libertà! Persino un vago accenno, persino una debole speranza che essa sia possibile dà le ali all'anima!». Il filosofo ebreo austriaco Martin Buber (1878-1965) nella sua opera Gog e Magog osservava: «Dio è il Dio della libertà. Egli che possiede tutti i poteri per costringermi, non mi costringe. Egli mi ha fatto partecipe della sua libertà. Io lo tradisco se mi lascio costringere».
Affermato il valore primario (e solitamente ignorato) del settimo comandamento, è però necessario ricordare che anche l'accezione comune che bolla il furto non è ad esso estranea. Anzi, sottrarre al prossimo un bene necessario per la pienezza della sua esistenza è un'altra via per renderlo schiavo. Per questo già i profeti, che - come Amos nell'VIII sec. a.C. - avevano denunciato la vergogna della vendita del "giusto" e del "povero per un paio di sandali" (2,6), togliendo loro la libertà, non hanno esitazioni nel protestare in modo veemente contro il furto quasi legalizzato, cioè quella corruzione politica di cui purtroppo siamo sempre spettatori complici o impotenti. Gridava, infatti, Isaia pochi anni dopo Amos: «Guai a coloro che emettono decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare il diritto dei poveri del mio popolo, così da fare della vedova la loro preda e spogliare gli orfani!» (10,1-3).
Sul furto della proprietà si ha una serie di commi proprio nella pagina biblica successiva a quella del Decalogo (Esodo 21,37-22,4), ove però si ha anche una certa tutela giuridica dello stesso ladro, soprattutto per impedire la reazione violenta della società o dello stesso derubato: si insiste, infatti, sul risarcimento del danno e non si commina - come accadeva nel codice babilonese di Hammurabi (XVIII sec. a.C.) - la pena di morte. Citiamone almeno uno di questi commi: «Se uno ha rubato un bue, un asino o un agnello e li ha conservati vivi, restituirà il doppio» (Esodo 22,3). La norma è severa perché la sottrazione di un bue, di un asino o di una pecora in una società agricola era un forte colpo inferto alla sussistenza di una famiglia che veniva in tal modo esposta a una esistenza precaria.
In questa luce si comprende la reazione di Davide, inconsapevole di essere lui in causa in quella parabola, di fronte al profeta Natan che vuole denunciare il particolare "furto" perpetrato dal re, quello di Betsabea, moglie del suo ufficiale Uria. Natan narra la storia di un ricco proprietario di greggi e mandrie che strappa da un povero "una pecorella piccina" che viveva con lui quasi fosse una figlia e Davide reagisce così: «Per la vita del Signore chi ha fatto questo merita la morte! Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà!» (vedi 2 Samuele 12,1-7). Analogo è il caso del contadino Nabot a cui il re Acab, sollecitato dalla regina Gezabele, aliena l'appezzamento di terreno per aggregarlo al suo parco reale (1 Re 21). Non riuscendo subito nell'intento, giungerà fino all'assassinio, sollevando la protesta solitaria, chiara e forte, del profeta Elia (S. Ambrogio dedicherà a questa vicenda biblica un intenso e veemente commento "sociale" nell'opera De Nabuthae).
Naturalmente il furto può avere mille volti, soprattutto in una società economicamente così complessa com'è la nostra. Già nell'Antico Testamento si condannavano le frodi e gli inganni: «Non rimuovere il confine del tuo prossimo, che hanno posto gli antenati nel tuo possesso» (Deuteronomio 19,14). Noi oggi potremmo far cenno alle rapine perpetrate dalle multinazionali nei confronti dei paesi del Terzo Mondo, all'usura, allo scambio diseguale tra le nazioni, al furto della conoscenza tecnologica e del lavoro, a certe transazioni commerciali ingannevoli; potremmo anche pensare a quell'infame furto che si consuma ai danni dei bambini, violando la loro intimità con la pedofilia, ma anche con una cattiva educazione o un'esistenza difficile, rubando a loro il futuro e spesso la stessa vita che avrebbero dovuto vivere (e chi sa quanto avrebbero arricchito l'umanità!).
La società non è sempre rigorosa e giusta nell'individuare e definire con verità il furto e la sua gravità. Già il famoso maestro taoista Chuang Tzu (IV-III sec. a.C.) nel Sacro Libro di Nan Hua amaramente osservava: «Ruba un pezzo di legno e ti chiamano ladro; ruba un regno e ti chiamano duca». Un'idea che sarà ripresa dalla novella La lampada di Sant'Antonio dell'abate Giambattista Casti (1724-1803): «Degno di gloria è quei che ruba un regno, chi ruba poco d'un capestro è degno». In verità chi prevarica sul prossimo attraverso il furto. secondo il Decalogo, pecca innanzitutto contro Dio: infrange, infatti, l'ordine della creazione, accaparrandosi egoisticamente quelle risorse che Dio ha destinato al bene comune. Il ladro, soprattutto quando è a livello politico, ferisce la società e umilia la dignità della persona.
Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes va oltre e dichiara: «L'uomo, usando dei beni del Creato, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri» (n. 69). E il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa: «Il diritto alla proprietà privata, acquisita con il lavoro o ricevuta da altri in eredità. oppure in dono, non elimina l'originaria donazione della terra all'insieme dell'umanità. La destinazione universale dei beni rimane primaria» (n. 2403). Proprio sulla scia di questo principio "primario" vorremmo concludere con le parole nette e severe di S. Ambrogio nella citata opera De Nabuthae: «La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri. Perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? Quando aiuti il povero, tu non gli dai del tuo, ma gli rendi il suo. Infatti, la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi. La terra è di tutti, non solo dei ricchi (...). Dunque, quando aiuti il povero, tu restituisci il dovuto, non elargisci il non dovuto».

«Non dire falsa testimonianza»

L'ottavo comandamento




Il nostro itinerario all'interno del Decalogo giunge all'ottava parola che è offerta nelle due versioni bibliche dei dieci comandamenti - quelle di Esodo 20,16 e di Deuteronomio 5,20 - con questa formula: «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo». Del suo tenore originale cercheremo di interessarci tra poco. Per ora accontentiamoci di partire dall'accezione più popolare che vede in questo precetto la condanna della bugia, della calunnia, della mormorazione, della maldicenza e così via. È, d'altronde, questo un tema classico anche nella storia della cultura di tutti i popoli.
Facciamo solo qualche esempio. Esiodo, poeta greco dell'VIII sec. a.C., nel suo capolavoro Le opere e i giorni affermava: «Un pettegolezzo calunnioso non svanisce mai del tutto, se molti lo ripetono: anche la calunnia è una specie di divinità». Lo storico greco Erodoto del V sec. a.C. nelle sue Storie ribadiva: «La calunnia è una cosa tremenda: sono due quelli che commettono ingiustizia, e uno quello che la subisce. Infatti il calunniatore commette ingiustizia denigrando una persona in sua assenza, e colui che ascolta commette egualmente ingiustizia accettando quello che gli viene detto prima di essersi potuto accertare del vero».
Shakespeare metteva in bocca ad Amleto queste parole per Ofelia: «Pur se tu sia casta come il ghiaccio e pura come la neve, non sfuggirai alla calunnia. Vattene in convento!» (Amleto III,1). E ancora il grande drammaturgo inglese faceva dire a Pisanio in Cimbelino (111,4): «La calunnia, il cui filo è anche più tagliente di quello della spada, e la cui lingua è più velenosa di tutti i serpenti del Nilo, e il cui fiato cavalca sopra i venti come fossero corsieri e diffonde la menzogna per tutti i quattro venti del mondo».
E come non ricordare quel Calomniez, calomniez: il en restera toujours quelque chose («calunniate, calunniate; ne resterà sempre qualcosa») del Barbiere di Siviglia, opera del commediografo francese Pierre Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799)? In verità la stessa idea era già stata formulata dal filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626) che nel suo De dignitate et augmentis scientiarum attribuiva allo storico e filosofo greco Plutarco (141 sec. d.C.) questo detto: Auducter calumniare, semper aliquid haeret, («calunnia sfacciatamente, qualcosa resterà sempre attaccato»). Perché — ed è un poeta francese, Casimir Delavigne (1793-1843) a ricordarcelo — «più una calunnia è inverosimile, meglio la ricordano gli stolti» (così nel dramma I figli di Edoardo).
E come non finire questa ideale antologia perversa con la celebre aria di don Basilio in un altro Barbiere di Siviglia, quello musicato da Rossini su libretto di Cesare Sterbini? «La calunnia è un venticello, / un'auretta assai gentile / che insensibile sottile / leggermente, dolcemente / incomincia a sussurrar. / Piano piano, terra terra, / sotto voce, sibilando / va scorrendo, va ronzando, / nelle orecchie della gente / s'introduce destramente, / e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gonfiar» (1,7). Forse aveva ragione il moralista francese Nicolas de Chamfort (1740-1794) quando nei suoi Pensieri, massime e aneddoti esortava a trattare la maldicenza così: «La calunnia è come la vespa che ti importuna e contro la quale non bisogna far nessun movimento, a meno d'essere sicuri di ammazzarla». Purtroppo, però, la storia ci avverte che Chamfort morì suicida...
Ma ritorniamo al significato originale dell'ottavo comandamento. In realtà in esso è in causa non tanto un ambito tutto sommato privato com'è quello della calunnia, della bugia, della mormorazione, bensì è coinvolto prima di tutto e sopra tutto l'orizzonte giudiziario, tant'è vero che la resa migliore dell'ebraico dovrebbe essere questa: «Non deporre contro il tuo prossimo come testimone falso». Il verbo usato, infatti, è quello tecnico della comparizione di un_testimone in sede processuale. Ora, considerando il rilievo che rivestiva la testimonianza a voce in una civiltà di cultura orale (lo scritto era secondario rispetto alla parola detta o data) è facile comprendere perché questo comandamento fosse la prima norma in assoluto nel celebre Codice di Hammurabi, testo-base del diritto babilonese. Si ingloba, certo, anche la questione della verità privata e quella delle relazioniquotidiane, ma si punta diritto al cuore della vita sociale. Merita forse un cenno la prassi processuale dell'antico Israele.
Ogni villaggio aveva come sede giudiziaria la porta pubblica che svolgeva le funzioni di municipio. Membri di diritto della corte di per sé erano tutti i cittadini residenti, non soggetti a tutela (come le donne e i minorenni) e dotati dei diritti civili (matrimonio, culto, servizio militare). I giudici e l'assemblea stavano seduti; chi testimoniava stava in piedi e, per la particolare tipologia di questa corte popolare, si poteva essere contemporaneamente testimoni e giudici. Una raffigurazione dal vivo di un dibattimento municipale alla porta del villaggio, il luogo ove tutti transitavano sia per i commerci, sia per recarsi al lavoro nei campi, è da leggere nel capitolo 4 del delizioso libro biblico di Rut.
Proprio da quanto si è detto finora, emergono chiaramente i rischi di un simile procedimento giudiziario, che successivamente verrà rettificato sia con un diritto processuale più rigoroso sia con la possibilità di interporre appello presso i tribunali di Gerusalemme (in epoca tarda sarà il Sinedrio, cioè l'assemblea suprema, a trattare i casi più importanti e gli altri in seconda istanza).
L'ottavo comandamento è, perciò, decisivo per la correttezza delle relazioni sociali e delle azioni penali ma anche per la tutela della dignità di una persona: per questo, in senso positivo, è l'esaltazione del diritto all'onore come dovuto a ogni persona. È ancora per questo che l'accento cade sul "falso testimone" in ebraico 'ed sheqer, colui che scardina la comunità e viola un diritto fondamentale, radicale, quasi sacrale.
Scrive, infatti, l'autore di un saggio sulla menzogna nella Bibbia, M. A. Klopfenstein (Die Lüge nach dem Alten Testament, Zurigo e Francoforte 1964): «Sheqer non è solo un discorso menzognero, bensì tutto un modo di comportarsi. È, infatti, un comportamento contrario alla fedeltà e alla fede, all'assistenza giudiziaria a cui il prossimo ha naturalmente diritto; è un contegno aggressivo, distruttivo della comunità, asociale». Proprio per marcare questa grave responsabilità, il testimone decisivo per una sentenza capitale era costretto ad essere il primo a scagliare la pietra della lapidazione: «La mano dei testimoni sarà la prima contro il condannato per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo» (Deuteronomio 17,7). E a questo proposito è illuminante la scena dell'adultera e l'invito di Gesù a scagliare la prima pietra, se si è senza colpa (Giovanni 8,1-11).
L'importanza di questo comandamento risulta anche dalla sua reiterata ripresa nella legislazione biblica. Ecco solo un esempio: «Non spargerai false dicerie; non presterai mano al colpevole per essere testimone in favore di un'ingiustizia.
Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia. Ti terrai lontano da ogni parola menzognera. Non far morire l'innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole. Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti» (Esodo 23,1-2 e 6-8). I profeti saranno veementi nel denunciare la corruzione della magistratura, corollario della proibizione decalogica: «Guai a coloro che fanno decreti iniqui - grida, ad esempio, Isaia (10,1-2) - e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri, per fare delle vedove la loro preda e spogliare gli orfani».
Possiamo anche evocare due casi biblici clamorosi di ingiustizia processuale causati da falsa testimonianza. Il primo è narrato nel capitolo 21 del Primo Libro dei Re. Un sovrano di Israele, Acab, istigato dalla moglie, una principessa fenicia di nome Gezabele, vorrebbe alienare a un contadino, Nabot, il terreno di proprietà della sua famiglia, per aggregarlo al parco reale della residenza estiva nella città di Izreel. Di fronte alla resistenza del contadino, forte del suo diritto, la regina organizza una specie di farsa processuale in cui due falsi testimoni - tanti quanti erano necessari per la validità dell'accusa - affermano: Nabot ha maledetto Dio e il re!». A questo punto scatta la condanna a morte: «Lo condussero fuori della città e lo uccisero lapidandolo». Ma nel silenzio complice dei cittadini, succubi e timorosi nei confronti dell'arroganza prevaricatrice del potere, si leverà la voce del profeta Elia che al re grida: «Hai assassinato e ora usurpi! Per questo dice il Signore: Nel terreno ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue!».
L'altro caso è quello di Gesù di Nazaret nei cui confronti si cerca di istruire un processo sulla base di una falsa testimonianza. Lasciamo la parola all'evangelista Marco: «I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. E alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui dicendo: "Lo abbiamo udito mentre diceva: Distruggerò questo tempio, fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d'uomo". Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all'assemblea, interrogò Gesù dicendo: "Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?" Ma egli taceva e non rispondeva nulla...» (14,55-61).
Ritorniamo, al termine della nostra analisi dell'ottavo comandamento, al punto da cui siamo partiti. Per noi, nell'accezione comune, questo precetto è soprattutto la condanna della menzogna. Nel linguaggio dell'evangelista Giovanni, in particolare nella sua Prima Lettera, la "menzogna" è la negazione della "verità" divina: è, quindi, un peccato satanico contro la fede. Si ha, quindi, un'ulteriore accezione forte che Gesù stesso marca quando accusa: «li diavolo è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della
menzogna» (Giovanni 8,44). C'è, allora, una gravità sociale e teologica nella violazione del precetto decalogico sulla verità da tutelare e rispettare. E la nostra comunicazione attuale, spesso segnata dall'inganno (si pensi all'influsso televisivo), sembra essere una continua violazione dell'ottavo comandamento.
Ma la drammaticità del monito non esclude anche il suo valore all'interno della quotidianità ove alligna la maldicenza e il pettegolezzo. È una specie di catena perversa che ben illustrava il commediografo e attore francese di_origine russa Sacha Guitry (1885-1957), autore di almeno 130 commedie brillanti: «Se quelli che dicono male di me sapessero quel che penso cli loro, direbbero peggio» (così nello scritto Toutes réflexions faites). E san Bernardino da Siena nelle sue Prediche volgari ammoniva il suo uditorio così, bollando l'ipocrisia: «Talvolta il detrattore va con apparenza di bene e parla male d'altri; egli va sotto ombra di bello modo, mostrando di avere carità; e la malizia sta agguattata sotto».

«Non desiderare...»

Il nono e il decimo comandamento



Identico è l'imperativo che regge gli ultimi due comandamenti, ritmato sul verbo "desiderare": è per questo che noi optiamo per un'unica trattazione. Fin dagli inizi del nostro percorso all'interno del Decalogo abbiamo segnalato la presenza nella Bibbia di due varianti dello stesso testo, l'una nel libro dell'Esodo e l'altra nel libro del Deuteronomio. Nel nostro caso la comparazione tra queste due formulazioni può risultare significativa. In Esodo 20,17 ci imbattiamo in due distinti comandamenti, appunto il nono e il decimo della serie: «Non desiderare la casa del tuo prossimo! Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo!».
Se, invece, esaminiamo l'equivalente del Deuteronomio (5,21), ci imbattiamo in questa sequenza: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo! Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo!». A prima vista avremmo una variante suggestiva: nella sequenza degli oggetti del desiderio, il Deuteronomio - comportandosi più rispettosamente nei confronti della dignità della persona - pone la donna al primo posto e solo successivamente la casa e le altre realtà. Tuttavia anche la formula più antica, quella dell'Esodo, è meno lontana di quanto a prima vista sembri dalla stessa concezione. Infatti si direbbe: «Non desiderare la casa del tuo prossimo», cioè la sua famiglia che poi, nel comandamento successivo, sarebbe specificata nei suoi soggetti e nei beni: moglie, schiavi, animali, terreni o cose.
A questo punto la nostra attenzione deve concentrarsi proprio sul verbo fondamentale "desiderare", in ebraico hamad (in realtà, il passo del Deuteronomio ne usa un altro per il "desiderio" della donna, ma in pratica essi sono sinonimi). In un saggio importante, apparso già nel 1927, sul Decalogo, lo studioso tedesco Johannes Herrmann puntualizzava che «hamad non significa un 'desiderare' nel senso di un semplice volere o augurarsi, ma include tutte le macchinazioni che portano a impossessarsi di quanto è desiderato». Detto in altri termini, non siamo in presenza della condanna di un vago desiderio o di un'attrazione istintiva, bensì di un vero e proprio progetto tendente alla conquista di una meta prefissata, come si fa capire nel giudizio su chi si lascia catturare dall'idolatria della ricchezza: «Non desiderare l'argento e l'oro che sono negli idoli e non prenderteli, perché non divengano un laccio per te!» (Deuteronomio 7,25).
Non hanno, allora, molto senso certe ironie che hanno bollato questi due comandamenti come impossibili. Pensiamo solo ai film dal titolo Non desiderare la donna d'altri, quelli di Garson Canin del 1940, con Charles Laughton e Carole Lombard, e di Vincent J. Donehue del 1959. con Montgomery Clift e Myrna Loy. Diverso è il caso del regista polacco Krzystof Kieslowski che a suo tempo evocammo per i dieci film dedicati ai vari comandamenti. Nel caso del nono (1988). egli mette in scena il tormento di un ragazzo, ancora ignaro dei segreti della sessualità, innamorato a distanza di una bella e disinibita trentenne. La spia, la segue, la ossessiona e alla fine compie un passo falso che renderà triste e drammatico l'esito finale.
Nella luce genuina del precetto decalogico si muove anche Gesù quando nel Discorso della Montagna, la "Magna Charta" del cristianesimo, coglie in profondità lo spirito del nono comandamento e lo conduce al suo valore radicale: «lo vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Matteo 5,28). Gesù non è così irrealistico e puritano da bollare irrimediabilmente una reazione primordiale, un'attrattiva spontanea ma, come sottolinea il rimando al "cuore", cioè secondo il linguaggio biblico alla coscienza, egli punta al "desiderio" nel senso di macchinazione, progettazione, decisione intima e profonda. Cristo è, perciò, pronto a perdonare l'adultera che in un momento di debolezza può aver peccato; ma condanna chi, dopo aver tentato in tutti i modi di irretire nei suoi desideri la moglie del suo prossimo, alla fine paradossalmente non ci riesce. Eppure egli ha consumato l'adulterio nel suo "cuore".
Decisiva è, quindi, la volontà, la scelta morale; l'azione aggiungerà gravità, ma la radice del peccato è proprio in quel hamad, in quel "desiderare" fondamentale, coerente e cosciente. In questa prospettiva è da leggere quanto scrive S. Paolo riguardo alla funzione della Legge sinaitica che risveglia il senso del peccato e la sua subdola forza: «Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la Legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare!» (Romani 7,7). Dopo aver puntualizzato il senso genuino di questi due ultimi comandamenti, vorremmo scavare nella loro portata permanentemente valida. Faremo, perciò, tre altre considerazioni.
La prima riguarda un elemento positivo, quello del desiderio in sé assunto. Al contrario di quanto ci ha abituati una certa predicazione ascetico-puritana, la Bibbia non propone un modello buddhista di cancellazione di ogni desiderio come sorgente dell'esperienza del dolore. Si pensi solo all'attesa quasi spasmodica dei patriarchi (ma non solo) per avere un figlio che continui il proprio nome oppure alla tensione verso la conquista di una terra in cui vivere in libertà, un desiderio quest'ultimo che pervaderà tutto Israele nell'epoca dell'esodo dall'Egitto. Anzi, anche una volta conquistati questi beni, essi diverranno la sorgente di un desiderio ulteriore che conduce verso l'eternità e l'infinito (la terra promessa diventa segno dell'eterna comunione con Dio), attuando così l'implicita assonanza insita tra "desiderio" e de sideribus, cioè qualcosa che ci proviene dalle stelle, dall'immensità senza limiti.
Nel suo Zibaldone Leopardi acutamente annotava: «Diciamo male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si- soddisfano i desideri, conseguito che abbiamo l'oggetto, ma si spengono, cioè si perdono ed abbandonano per la certezza di non poterli mai soddisfare». Il pessimismo di questa osservazione non cancella il dato indiscutibile che l'uomo non è mai soddisfatto perché il suo desiderio è sempre spia di un Oltre infinito. È così chenel Salterio si ripete: «Signore, davanti a te è ogni mio desiderio... Mio Dio, questo io desidero: la tua Legge è nel profondo del mio cuore... lo desidero la tua salvezza... Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio... Di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne» (Salmi 38,10; 119,174; 40,9; 42,1; 63,2). Anzi, si ribadisce a più riprese che il Signore esaudisce i desideri del cuore giusto (Salmi 9,38; 21,3; 37,4; Proverbi 10,24).
A questa considerazione che presenta «il desiderio come albero di vita» (Proverbi 13,12) ne associamo per antitesi una seconda che si muove nello spirito dei nostri due comandamenti. Accanto al "ben desiderare", che è poi un "desiderare il bene", c'è però la bramosia, la concupiscenza, l'ingordigia che è poi un "desiderare il male". Emblematico è il racconto del libro biblico dei Numeri sul dono delle quaglie (11,31-35) che ha al centro il pittoresco ritratto dell'ingordo che accumula e alla fine prova nausea: «Avevano ancora la carne fra i denti e non l'avevano ancora masticata, quando lo sdegno del Signore si accese contro il popolo...» (versetto 33). Il monito di Dio era stato folgorante: «Mangerete carne non per uno, due, cinque, dieci o venti giorni ma per un mese intero finché vi esca dalle narici e vi venga a nausea» (Numeri 11,19-20). Il luogo dove è collocato questo episodio di desiderio frenetico e incontrollato sarà significativamente denominato in ebraico Qi-brot-Taava', "sepolcri della bramosia", perché —commenta la Bibbia — «qui fu sepolta la gente che si era lasciata dominare dall'ingordigia» (Numeri 11,34).
Le varianti di questo "desiderare" viziato e vizioso sono molteplici e si chiamano concupiscenza, sensualità, avidità, sregolatezza, libidine, invidia e così via. Perché il cuore non resti impigliato nelle sue reti deve anche affidarsi alla grazia divina, come suggerisce questa invocazione del Siracide, sapiente biblico del II sec. a.C.: «Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi al volere dei miei vizi, non lasciarmi cadere a causa loro. Chi applicherà la frusta ai miei pensieri, al mio cuore la disciplina della sapienza? Signore, padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìa di sguardi sfrontati e allontana da me la concupiscenza. Sensualità e libidine non s'impadroniscano di me; a desideri vergognosi non mi abbandonare!» (23,1-2. 4-6).
Eccoci, infine, alla terza e ultima considerazione che riserviamo agli oggetti del desiderio. Il nono e il decimo comandamenti sono paralleli al sesto e al settimo ("Non commettere adulterio!" e "Non rubare!"). Si ribadisce, dunque, attraverso il simbolo della "casa" il diritto di proprietà di una persona e di una famiglia, visto come tutela della dignità personale e sociale. È facile registrare nel-la Bibbia la denuncia più severa contro quanti, come il re Acab e sua moglie Gezabele nei confronti del contadino Nabot (1 Re 21), alienano con la violenza o l'inganno lo spazio vitale degli altri. «Guai a voi — ammonisce il profeta Isaia — che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio...» (5,8). Michea gli fa eco: «Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono» (2,2). Il libro della Legge ha questa maledizione: «Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo» (Deuteronomio 27,17).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica così commenta questo precetto: «Esso proibisce la cupidigia dei beni altrui, che è la radice del furto, della rapina e della frode... Proibisce l'avidità e il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni terreni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smodata brama delle ricchezze e del potere in esse insito. Proibisce anche il desiderio di commettere un'ingiustizia, con la quale si danneggerebbe il prossimo nei suoi beni temporali... Il decimo comandamento esige che si bandisca dal cuore umano l'invidia che può condurre ai peggiori misfatti» (nn. 2534; 2536; 2538). Dovrebbe valere anche nei nostri giorni, che spesso esaltano la ricchezza ostentata e sfacciata come fonte di successo politico e sociale, il monito del Salmista: «Non confidate nella violenza, non illudetevi della rapina; alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore!» (Salmo 62,11).
L'altra componente del cattivo desiderio è "la donna del tuo prossimo". Si riprende, dunque, da un'altra angolatura - quella appunto del "desiderio-macchinazione" che precede, genera e supera l'atto concreto - il sesto comandamento che già proibiva l'adulterio. Si condannano, così, Davide e la sua cieca passione per Betsabea che lo conduce fino all'assassinio (2 Samuele 11) o quella morbosa di suo figlio Assalonne per la sorellastra Tamar (2 Sarnuele 13,1-20) o ancora l'eccitazione delusa, che sfocia anch'essa in un tentativo di delitto, dei due vecchi perversi nei confronti di Susanna (Daniele 13). Giobbe poteva, invece, dichiarare senza esitazione di «avere stretto con, gli occhi un patto: non fissare neppure una vergine» (31,1). E il citato Siracide ammoniva il suo discepolo: «Distogli gli occhi da una donna bella, non fissare una bellezza che non ti appartiene» (9,8). E ancora: «Non seguire le passioni, poni un freno ai tuoi desideri!» (18,30).
È, quindi, condannata dal Decalogo la "concupiscenza" nel senso popolare del termine, ma anche in quello più profondo ed etimologico che rimanda a “ogni forma veemente di desiderio umano». La teologia cristiana ha dato a questa parola il significato specifico di moto dell'appetito sensibile che si oppone-ai dettami della ragione umana. Essa ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo» (così il Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2515). In questa linea dobbiamo dire che il nono comandamento non si limita a proteggere l'istituto matrimoniale ma va ben oltre e colpisce il cuore di una mentalità diffusa ai nostri giorni. Esso non condanna solo i tentativi di impadronirsi dell'amore della donna di un altro ma anche ogni atteggiamento che riduca la donna a mero "oggetto" del desiderio, a un giocattolo. E in questo la televisione, il cinema, la pubblicità, i giornali possono diventare un infame strumento di perversione morale. Viene così bollato il terribile desiderio di possedere l'altro, riducendolo a proprio dominio e, in casi tragici che sono ben noti a tutti, fino alla schiavitù.
Molti testi letterari del Novecento sono la testimonianza di questa volontà perversa e sadica di impossessarsi dell'altra persona fino a torturarla interiormente (e talora anche fisicamente) strappandola ai suoi affetti, alla sua libertà: solo per fare un paio di esempi, pensiamo alla Xavière del romanzo L'invitata (ed. Mondadori) di Simone de Beauvoir (1943) o alla Cecilia della Noia di Alberto Moravia (Bompiani 1960). Purtroppo, come si legge nella Lettera di S. Giacomo: «Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quando è consumato, produce la morte» (1,14-15). È, infatti, «dal cuore che provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni», come notava Gesù (Matte() 15,19). È per questo che egli ha fatto risuonare con forza sulla vetta del Monte delle Beatitudini questa proclamazione: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio!» (Matteo 5,8).

dal sito notedipastoralegiovanile.it

I testi sono liberamente e gratuitamente condivisibili ma non manipolabili
Informativa sulla privacy leggila cliccando qui
Torna ai contenuti