Chiesa cristiana di Gesù Cristo storia
La Chiesa di Cristo
“Stabilito che Gesù ha fondato una Chiesa e che essa per istituzione divina deve durare sino alla fine del mondo, bisogna ora capire come poterla individuare tra le tante confessioni cristiane oggi esistenti; appartenere ad essa, infatti, è necessario alla salvezza, per tutti coloro che si trovano nella condizione di potervi aderire. Quella che a noi interessa è la Chiesa di Gesù. Noi vogliamo appartenere alla Comunità da lui voluta e fondata, e perché una di quelle esistenti sia riconosciuta come tale non è sufficiente che essa dica di esserlo, che si richiami a Lui, che affermi una continuità ideale con i suoi insegnamenti: è necessario che storicamente risalga alla sua istituzione. Non ci resta, dunque che prendere in esame le varie aggregazioni che si definiscono cristiane e percorrerne la storia, per verificare se essa ci riporta fino agli apostoli e quindi a Gesù.
Cominciamo col vasto mondo della Riforma protestante e dei suoi derivati, che arriva oggi a contare molte migliaia di denominazioni. Tra queste vi può essere la vera erede della Chiesa di Gesù? Paradossalmente, tutte queste comunità che rivendicano come propria la peculiarità di essere cristiane, possono tutt’al più sostenere di ispirarsi a Gesù, ma non certo di essere da lui fondate. Infatti, la loro “nascita” è storicamente databile ed attribuibile ad un artefice chiaramente umano: con Valdo nel 1215 nascono i valdesi, con Lutero nel 1520 nascono i luterani, con Calvino nel 1533 nascono i calvinisti, con Enrico VIII nel 1533 nascono gli anglicani, con J.Wesley nel 1720 nascono i metodisti, con J.Smith nel 1830 nascono i mormoni, con W. Miller nel 1844 nascono gli avventisti, con C.Russel nel 1879 nascono i Testimoni di Geova, fino ad arrivare al pastore Pahram nel 1901 anno in cui nascono i pentecostali, poiché come è noto, in quella galassia che per comodità definiamo “protestante” ogni giorno nascono (e muoiono) nuovi gruppi.
Di fatto sostenere che uno di questi gruppi sia la vera Chiesa di Gesù significa sostenere che tra l’epoca di Gesù e la data di fondazione del gruppo in questione c’è un vuoto: per 1200 o 1500, o 1800 anni, la vera fede cristiana sarebbe sparita dalla faccia della terra, fino al momento in cui un tizio, un Lutero o un Calvino o un altro di questi, finalmente reinventa il cristianesimo!
Quanto questa tesi sia razionalmente assurda e biblicamente insostenibile, ognuno lo può vedere. Bisognerebbe pensare che Gesù scherzasse (o sbagliava!) quando ha promesso: “Io sono con voi ogni giorno, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
C’è poi un secondo gruppo di comunità cristiane da esaminare: le antiche Chiese orientali (Assira, Copta, Giacobita, Armena, Etiopica) e le Chiese ortodosse. Le prime sono Comunità situate nell’allora periferia orientale dell’impero romano e separatesi dal resto della cristianità tra il V e il VI secolo; le altre sono invece le 19 Comunità nazionali frutto della rottura bizantina con quella latina verificatasi nel 1054.
Queste Chiese pur essendosi rese autonome in un dato momento, non nascono in quel momento, e a giusto titolo possono essere riconosciute come apostoliche, poiché partendo dai loro vescovi si può risalire camminando a ritroso nel tempo, di vescovo in vescovo sino al tempo degli apostoli di Gesù. Troviamo dunque nella storia di queste Chiese il primo elemento essenziale, la “successione apostolica”, garanzia di continuità storica e quindi di fedeltà all’istituzione divina della Chiesa.
Una fedeltà parziale, però, poiché questo elemento, da solo, non basta. Esse infatti vivono il loro essere Chiese in modo autonomo l’una contro l’altra, tanto da definirsi “autocefale”, come dire che ognuna fa capo a sé. Ma è evidente dal Vangelo che Gesù parla sempre e solo di “Chiesa” al singolare, non di “Chiese”: la comunità dei suoi discepoli non è una federazione di enti locali, ma UNA unità, chiamata addirittura ad essere specchio di quell’unità che è il vincolo delle Tre divine Persone (Gv17,21).
E’ necessario dunque che la vera Chiesa di Gesù si distingua tanto per l’apostolicità che per l’unità. E’ Gesù stesso ha stabilito il fondamento visibile di questa unità quando ha posto a capo del collegio degli apostoli Simone di Betsaida: Egli lo ha fatto capostipite del nuovo popolo di Dio cambiandogli il nome in Pietro (Mt 16,18), come Giacobbe capostipite dell’antico popolo era stato chiamato Israele (Gn 35,9-11); lo ha investito di una nuova suprema autorità consegnandogli le chiavi del Regno dei cieli (Mt 16,19); lo ha incaricato di guidare e confermare i fratelli nella fede (Lc 22,31), e di pascere l’intero gregge di Gesù, agnelli (vescovi) e pecorelle (fedeli) (Gv 21,15).
Siamo certi che il ruolo affidato da Gesù all’apostolo Pietro continui nei suoi successori, i vescovi di Roma? Anche in questo la storia ci risponde con garanzia di oggettività. In particolare, dobbiamo analizzare ciò che accadeva nei primi cinque secoli dell’era cristiana: infatti, se a partire dal VI secolo l’autorità del Pontefice romano è divenuta oggetto di discussione prima per le antiche Chiese orientali, poi per le Chiese Ortodosse e infine, tanto più, per le Comunità della Riforma, è importante stabilire ciò che pensava e viveva la Chiesa indivisa dei primi secoli, alla quale anche i fratelli separati guardano come ad esemplare e matrice della propria fede.
Ora le testimonianze di quell’epoca (I-V secoli) sono numerose ed esplicite:
1 – affermazioni teoriche e pratiche del primato romano: i vescovi di Roma dimostrano piena consapevolezza del loro ruolo di successori di Pietro e quindi di vicari in terra di Gesù Cristo, e ne esercitano le prerogative, intervenendo in questioni dottrinali e disciplinari di altre comunità anche nelle regioni più remote.
E questo dato è verificabile fin dal I secolo, come dimostra la vicenda di Papa Clemente I (92-99), il quale scrive una lettera ai cristiani di Corinto per dirimere con sua autorità una faccenda disciplinare. La lettera fu tenuta in così alta stima da essere letta al pari dei Libri biblici nelle liturgie pubbliche per tutto il II secolo, come ci testimonia il vescovo Dionigi scrivendo a papa Sotero (II metà del II secolo): <<Possediamo una lettera di Clemente…Abbiamo appreso che in un grandissimo numero di chiese questa lettera era un tempo letta pubblicamente nelle assemblee, e che lo è ancora ai nostri giorni>>.
– riconoscimenti del primato romano: i vescovi, anche delle sedi più prestigiose, d’Oriente e d’Occidente, accettano e spesso invocano l’intervento del vescovo di Roma, mostrando così di riconoscere il primato romano; tra di essi vi sono i predecessori di coloro che in seguito purtroppo sono divenuti vescovi scismatici, dimostrando in tal modo di rinnegare l’insegnamento e la prassi di così illustri antenati nella fede. Celebre quel testo del vescovo Ignazio di Antiochia (inizio II secolo) che scrive una lettera alla Chiesa di Roma nella quale, unica tra il suo epistolario, non imparte ammaestramenti poiché <<la Chiesa di Roma ammaestra gli altri senza essere da nessuno ammaestrata >>; la ricolma di elogi e la definisce <<guida nella fede e nella carità>>, Chiesa che <<la presidenza nella carità>>- E ancor più celebre il riferimento al primato di Roma che troviamo nel vescovo Ireneo di Lione, il quale, nel suo volume contro le eresie (fine II secolo) sostiene che si prova l’apostolicità della dottrina di una comunità cristiana dalla possibilità di dimostrare l’origine apostolica del suo vescovo attraverso una successione ininterrotta, andando a ritroso dal presente all’età apostolica; non potendo materialmente fare questo per ogni singola Chiesa, lo fa per la Chiesa di Roma che è <<la più grande e la più antica, a tutti nota>>: con questa Chiesa a << ragione della sua più efficace preminenza, devono accordarsi tutte le altre Chiese esistenti nel mondo, poiché in essa i cristiani di ogni paese hanno ricevuta intatta la tradizione degli apostoli>>, (tutto quello che scrive Ireneo sulla Chiesa di Roma lo vedremo più avanti dettagliatamente,ndr)
3 – esegesi e teologia del primato: i Padri della Chiesa, i grandi teologi dell’antichità, nei loro scritti interpretano nel senso del primato i passi evangelici riguardanti san Pietro e li pongono in relazione all’ufficio del vescovo di Roma, rinascendo così la continuità tra l’Apostolo e i suoi successori;
4- valore sovra regionale dei sinodi romani: il sinodo è per definizione un organo di legislazione e governo locale o regionale; al contrario molti sinodi romani, proprio perché organi della Sede del successore di Pietro, hanno acquistato una valenza ben più ampia intervenendo nei problemi di altre regioni. E’ dunque ampiamente che la Chiesa indivisa dei primi secoli ha riconosciuto nel vescovo di Roma il successore di Pietro e il vicario di Cristo. Pertanto né i figli della Riforma, né i fratelli separati dell’Oriente, ma solo la Chiesa cattolica, governata dai successori degli apostoli e raccolta intorno al Seggio del Vicario di Cristo, possiede quelle doti di “unità” ed “apostolicità” che ne garantiscono la santità, cioè il permanere in essa del carisma originario di fondazione, impresso nel sua DNA dal nostro Salvatore. Solo così ritroviamo quella Chiesa che nel Simbolo della fede professiamo <<una, santa, cattolica, apostolica>>”.
Tutto questo significa forse che fuori dalla Chiesa di Roma non c’è salvezza?
<<Extra ecclesia nulla salus>>: come va interpretato questo antico principio? Si può davvero sostenere che chi è fuori dalla Chiesa non può salvarsi? E in che senso?
<<Il senso è questo: colui che -avendo visto chiaramente nel suo spirito che cos’è la Chiesa, corpo mistico e sposa di Cristo, voluta da Lui e scaturita dalla sua costola- rifiuta la Chiesa sapendo che cosa rifiuta è fuori dalla salvezza eterna, perché si colloca fuori dal mistero. Ma questo non è il caso della massa immensa di quanti non conoscono la Chiesa perché sono ignoranti oppure per dei malintesi; costoro non possono essere condannati per il peccato del rifiuto della luce, che non hanno commesso. Saranno piuttosto giudicati a partire dalla luce a cui sono stati fedeli nella loro coscienza. In questo caso è più fondamentale l’affermazione che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini: e la salvezza deriva sempre dalla Grazia di Cristo. La quale -dice il Concilio- segue cammini che non conosciamo. Tutti coloro che in buona fede seguono tali vie, nel rispetto della coscienza, saranno salvi. Anche senza il battesimo con acqua. (crf il Timone n.40 feb-2005)
Ma continuiamo ad approfondire cosa significa successione apostolica e Tradizione ecclesiastica.
Cito ora alcuni interessanti brani tratti dal sito cattolico MSN “Difendere la Vera fede”, scritti dal fratello Massimo e dalla sorella Tea che ci aiuteranno a comprendere meglio l’importanza della Tradizione cristiana.
“Credo che tutte le tradizioni, fintanto che mantengono la loro matrice antropologica, cioè di fattura umana, siano su quel tenue filo che separa il bene dal male. La Bibbia ne è piena...
Se guardiamo, però, al momento della Rivelazione, ci accorgiamo che Dio vuole dichiararsi per quello che è, e per quello che intende fare dell'uomo uscito dalle Sue mani.
Vale a dire che, lentamente, Egli da un senso e un fondamento a gran parte delle tradizioni, ad usanze già inserite nel tessuto connettivo del popolo eletto.
Ad es., il sacrificio umano, forse la più barbara delle tradizioni cultuali, diffusa nel Canaan e nel vicino Oriente, cessa di essere "tradizione negativa" nel momento che l'angelo ferma la mano di Abramo. E' come se Dio avesse voluto dire: "OK, fino adesso avete fatto così, è stato il vostro modo di rendere culto all'idea che avevate di dio. Ma io, Dio, vi dico che da adesso in poi, il sacrificio dovrà escludere la vittima umana...”.
Infatti, anche il profetismo, ad un certo punto, supererà l'idea di sacrificio animale come alternativo e legittimo, per parlare di un culto "interiore", un sacrificio che riguarda la sfera più intima e per questo, più simile al Dio cui lo si offre.
Sarà Cristo a riprendere la tematica del sacrificio abramitico e a realizzare su quel modello, l'opera salvifica totale.
Questo, ovviamente, è solo un esempio per dire che le tradizioni, solamente umane, potrebbero portare allo sfascio totale, proprio perché sconnesse dal fine ultimo che le riveste di senso umano e divino insieme, di storia e di metastoria, di tempo e di eternità.
Se usassimo la teoria matematica degli insiemi, potremmo far congiungere l'insieme A (l'uomo e la storia) con l'insieme B (Dio e l'eternità).
Il loro punto di contatto, la dove si toccano, AB, è la relazione tra quello di cui siamo capaci come uomini con quello di cui potremmo essere capaci come creature "divinizzate" dallo Spirito.
Lo stesso vale per le tradizioni: se rimangono manufatti umani, sono poco più di una brocca o di un tavolo, per quanto belli e preziosi.
Ma se corrette dal piano che Dio ha sulla creazione, ecco che acquistano senso e valore perché comunicano una particella di verità quale anticipo di quella verità totale che la tradizione (quella buona) intende presentare e conservare, assumere e prefigurare.”