La Lavanda dei piedi Significato catechesi
Catechesi terza parte
LA LAVANDA DEI PIEDI E L'ISTUTUZIONE DELL'EUCARISTIA
Tra gli episodi misteriosi, c’è sicuramente la lavanda dei piedi e il suo significato profondo. Perché Gesù lavò i piedi ai discepoli dopo aver cominciato la cena?
“Per capirlo è necessario tenere presente che era abitudine d’allora lavare i piedi prima dell’inizio dei banchetti. L’anfitrione soleva offrire dell’acqua per i piedi ai suoi ospiti; si trattava di una cortesia di cui abbiamo un esempio in Lc 7,36-50 il compito di offrire l’acqua, di lavare e risciacquare i piedi ai commensali spettava ai servitori. Nel racconto di Giovanni, il collegamento tra la lavanda dei piedi e la cena è ovvio. La cosa sorprendente è che venga realizzata proprio da Gesù, a cena già iniziata. In questo modo risalta ancor di più la trascendenza del gesto, la cui rilevanza non può che derivare dall’associazione con ciò che accadrà “dopo”, cioè l’Eucaristia.
La risposta di Gesù alle parole di Pietro esplicita chiaramente che la lavanda dei piedi è necessaria, se vuole avere parte con lui. Ovvero, è necessario purificarsi prima di partecipare all’Eucaristia, che viene descritta come una partecipazione nella persona di Gesù. L’espressione “aver parte con me” evoca le formule utilizzate da Paolo in 1Cor 10,16: <<comunione del Sangue di Cristo>> e <<comunione del Corpo di Cristo>>. Il gesto di Gesù, pertanto, è inteso a preparare i discepoli ad accogliere il dono che egli si accinge e fare di se stesso.
La lavanda dei piedi era una caratteristica dell’ ospitalità nel mondo antico, era un dovere dello schiavo verso il padrone, della moglie verso il marito, del figlio verso il padre e veniva effettuata con un catino apposito e con un “lention” (asciugatoio) che alla fine era divenuto una specie di divisa di chi serviva a tavola.
Quando fu il turno di Simon Pietro, questi si oppose al gesto di Gesù: “Signore tu lavi i piedi a me?” e Gesù rispose: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”; allora Pietro che non comprendeva il simbolismo e l’ esempio di tale atto, insisté: “Non mi laverai mai i piedi”. Allora Gesù rispose di nuovo: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” e allora Pietro con la sua solita impulsività rispose: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”. Questa lavanda è una delle più grandi lezioni che Gesù dà ai suoi discepoli, perché dovranno seguirlo sulla via della generosità totale nel donarsi, non solo verso le abituali figure, fino allora preminenti del padrone, del marito, del padre, ma anche verso tutti i fratelli nell’ umanità, anche se considerati inferiori nei propri confronti.
Se nell’Apocalisse si trova la formulazione paradossale secondo cui i salvati «hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (7,14), ciò vuol dire: è l’amore di Gesù sino alla fine che ci purifica, ci lava. Il gesto della lavanda dei piedi esprime proprio questo: l’amore servizievole di Gesù è ciò che ci tira fuori dalla nostra superbia e ci rende capaci di Dio, ci rende «puri».
«Voi siete puri»
Nel brano della lavanda dei piedi la parola «puro» ricorre tre volte. Con ciò Giovanni riprende un concetto fondamentale della tradizione dell’Antico Testamento, come pure del mondo delle religioni in genere. Per poter comparire davanti a Dio, entrare in comunione con Dio, l’uomo deve essere «puro».
E’ molto significativa la forma sotto la quale il Signore volle rimanere con noi, poichè se fosse rimasto mantenendo il proprio aspetto, sarebbe rimasto per essere venerato, ma restando sotto forma di pane, è restato per essere mangiato e venerato: affinché con uno si esercitasse la fede, con l’altro la carità.
E viene chiamato pane di vita, poiché è la vita stessa, è la vita sotto forma di pane; perciò quest’altro pane a poco a poco dà la vita a chi lo mangia, dopo molte digestioni; ma chi mangia questo pane con dignità, riceve la vita all’istante, perché mangia la vita stessa. Cosicchè, se questo cibo ti ripugna perché è vivo, avvicinati a lui perché è pane; e se lo rispetti poco perché è pane, stimalo molto perché è vivo” cfr,( La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli, J.M. Garcia, ed. BUR)
I quattro evangelisti e San Paolo danno notizia di questo fatto. In quella memorabile Cena, il Signore introduce vari cambiamenti sul tradizionale rito della Pasqua degli ebrei, così istituisce il Sacramento e dà origine ad una nuova ritualità che, attecchita sulle tradizioni liturgiche di Israele, le supera, portandole alla “pienezza”.
Di ciò offre fedele testimonianza la Scrittura: i sinottici narrano sommariamente di una cena giudaica, perché (evidentemente) già conosciuta, per incentrarsi sulla novità cristiana, ovvero sul Sacramento.
E la prima di questa novità più significative sono le parole con le quali il Maestro accompagna il gesto, realizzato dopo lo “Spezzare il Pane”, per darne ad ognuno dei commensali un pezzo per cominciare a cenare. I primi cristiani cominciano a chiamare la loro celebrazione sacramentale “Frazione del Pane”.
Essi, specialmente a Gerusalemme, si abituano a mantenere le tradizioni oranti degli ebrei osservanti. Accorrono alle ore prescritte a pregare nel Tempio e partecipano ai culti sinagogali, e di questo ci sono abbondanti prove nel Nuovo Testamento. Il sabato però, dopo aver partecipato al culto delle letture, salmi e preghiere nella Sinagoga, quando col cadere dal pomeriggio cominciava il primo giorno della settimana, si ritirano nelle proprie case per “Spezzare il Pane” intorno agli Apostoli.
Quello che sappiamo è che, cominciando dalle comunità paoline, il rito cristiano della “Frazione del Pane” si va gradualmente separando da quello che era la cena di comunità, una refezione di carattere religioso-sociale. Così, gradualmente, nelle comunità cristiane guadagna terreno la prassi di iniziare leggendo la Legge ed i Profeti, al modo sinagogale, per seguire con la lettura di scritti o lettere degli Apostoli e poi ascoltare l’interpretazione cristiana dei testi veterotestamentari letti, cosi come gli insegnamenti e i fatti della vita di Cristo, trasmessi dalla bocca degli Apostoli o dei loro immediati collaboratori nella missione. Poi si procede ad offrire suppliche e preci, al modo sinagogale, per tutte le necessità, si presentano pane, vino ed acqua e si realizza la “Frazione” del Pane tra canti e lodi a Dio, per finire molte volte con una colletta in favore dei poveri.
Oggi il termine sacrificio per molti ha assunto un significato negativo, ma è utile riscoprire il vero significato di tale termine nel contesto eucaristico.
La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.
In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).
Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza?
Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia. (cfr, Benedetto XVI)
I quattro evangelisti e San Paolo danno notizia di questo fatto. In quella memorabile Cena, il Signore introduce vari cambiamenti sul tradizionale rito della Pasqua degli ebrei, così istituisce il Sacramento e dà origine ad una nuova ritualità che, attecchita sulle tradizioni liturgiche di Israele, le supera, portandole alla “pienezza”.
Di ciò offre fedele testimonianza la Scrittura: i sinottici narrano sommariamente di una cena giudaica, perché (evidentemente) già conosciuta, per incentrarsi sulla novità cristiana, ovvero sul Sacramento.
E la prima di questa novità più significative sono le parole con le quali il Maestro accompagna il gesto, realizzato dopo lo “Spezzare il Pane”, per darne ad ognuno dei commensali un pezzo per cominciare a cenare. I primi cristiani cominciano a chiamare la loro celebrazione sacramentale “Frazione del Pane”.
Essi, specialmente a Gerusalemme, si abituano a mantenere le tradizioni oranti degli ebrei osservanti. Accorrono alle ore prescritte a pregare nel Tempio e partecipano ai culti sinagogali, e di questo ci sono abbondanti prove nel Nuovo Testamento. Il sabato però, dopo aver partecipato al culto delle letture, salmi e preghiere nella Sinagoga, quando col cadere dal pomeriggio cominciava il primo giorno della settimana, si ritirano nelle proprie case per “Spezzare il Pane” intorno agli Apostoli.
Quello che sappiamo è che, cominciando dalle comunità paoline, il rito cristiano della “Frazione del Pane” si va gradualmente separando da quello che era la cena di comunità, una refezione di carattere religioso-sociale. Così, gradualmente, nelle comunità cristiane guadagna terreno la prassi di iniziare leggendo la Legge ed i Profeti, al modo sinagogale, per seguire con la lettura di scritti o lettere degli Apostoli e poi ascoltare l’interpretazione cristiana dei testi veterotestamentari letti, cosi come gli insegnamenti e i fatti della vita di Cristo, trasmessi dalla bocca degli Apostoli o dei loro immediati collaboratori nella missione. Poi si procede ad offrire suppliche e preci, al modo sinagogale, per tutte le necessità, si presentano pane, vino ed acqua e si realizza la “Frazione” del Pane tra canti e lodi a Dio, per finire molte volte con una colletta in favore dei poveri.
Oggi il termine sacrificio per molti ha assunto un significato negativo, ma è utile riscoprire il vero significato di tale termine nel contesto eucaristico.
La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.
In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).
Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza?
Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia. (cfr, Benedetto XVI)
I quattro evangelisti e San Paolo danno notizia di questo fatto. In quella memorabile Cena, il Signore introduce vari cambiamenti sul tradizionale rito della Pasqua degli ebrei, così istituisce il Sacramento e dà origine ad una nuova ritualità che, attecchita sulle tradizioni liturgiche di Israele, le supera, portandole alla “pienezza”.
Di ciò offre fedele testimonianza la Scrittura: i sinottici narrano sommariamente di una cena giudaica, perché (evidentemente) già conosciuta, per incentrarsi sulla novità cristiana, ovvero sul Sacramento.
E la prima di questa novità più significative sono le parole con le quali il Maestro accompagna il gesto, realizzato dopo lo “Spezzare il Pane”, per darne ad ognuno dei commensali un pezzo per cominciare a cenare. I primi cristiani cominciano a chiamare la loro celebrazione sacramentale “Frazione del Pane”.
Essi, specialmente a Gerusalemme, si abituano a mantenere le tradizioni oranti degli ebrei osservanti. Accorrono alle ore prescritte a pregare nel Tempio e partecipano ai culti sinagogali, e di questo ci sono abbondanti prove nel Nuovo Testamento. Il sabato però, dopo aver partecipato al culto delle letture, salmi e preghiere nella Sinagoga, quando col cadere dal pomeriggio cominciava il primo giorno della settimana, si ritirano nelle proprie case per “Spezzare il Pane” intorno agli Apostoli.
Quello che sappiamo è che, cominciando dalle comunità paoline, il rito cristiano della “Frazione del Pane” si va gradualmente separando da quello che era la cena di comunità, una refezione di carattere religioso-sociale. Così, gradualmente, nelle comunità cristiane guadagna terreno la prassi di iniziare leggendo la Legge ed i Profeti, al modo sinagogale, per seguire con la lettura di scritti o lettere degli Apostoli e poi ascoltare l’interpretazione cristiana dei testi veterotestamentari letti, cosi come gli insegnamenti e i fatti della vita di Cristo, trasmessi dalla bocca degli Apostoli o dei loro immediati collaboratori nella missione. Poi si procede ad offrire suppliche e preci, al modo sinagogale, per tutte le necessità, si presentano pane, vino ed acqua e si realizza la “Frazione” del Pane tra canti e lodi a Dio, per finire molte volte con una colletta in favore dei poveri.
Oggi il termine sacrificio per molti ha assunto un significato negativo, ma è utile riscoprire il vero significato di tale termine nel contesto eucaristico.
La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.
In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, ed per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).
Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza?
Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia. (cfr, Benedetto XVI)
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia. (cfr, Benedetto XVI)
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia. (cfr, Benedetto XVI)