Il primato di Pietro Chiesa di Roma successione apostolica
IL PRIMATO DI PIETRO
Dopo Gesù, Pietro è il personaggio più noto e citato negli scritti neotestamentari: viene menzionato 154 volte con il soprannome di Pétros, "pietra", "roccia", che è traduzione greca del nome aramaico datogli direttamente da Gesù, Kefa, attestato 9 volte soprattutto nelle lettere di Paolo. Si deve poi aggiungere il frequente nome Simòn (75 volte), che è forma grecizzata del suo originale nome ebraico Simeòn (2 volte: Atti 15,14; 2 Pietro 1,1).
Un altro momento significativo nel suo cammino spirituale Pietro lo vivrà nei pressi di Cesarea di Filippo, quando Gesù pone ai discepoli una precisa domanda: "Chi dice la gente che io sia?" (Marco 8,27). A Gesù però non basta la risposta del sentito dire. Da chi ha accettato di coinvolgersi personalmente con Lui vuole una presa di posizione personale. Perciò incalza: "E voi chi dite che io sia?" (Mc 8,29). È Pietro a rispondere per conto anche degli altri: "Tu sei il Cristo", cioè il Messia. Questa risposta di Pietro, che non venne "dalla carne e dal sangue" di lui, ma gli fu donata dal Padre che sta nei cieli (cfr Matteo 16,17), porta in sé come in germe la futura confessione di fede della Chiesa. Tuttavia Pietro non aveva ancora capito il profondo contenuto della missione messianica di Gesù, il nuovo senso di questa parola: Messia. Lo dimostra poco dopo, lasciando capire che il Messia che sta inseguendo nei suoi sogni è molto diverso dal vero progetto di Dio. Davanti all’annuncio della passione si scandalizza e protesta, suscitando la vivace reazione di Gesù (cfr Marco 8, 32-33).
Gesù domanda a Pietro la prima volta: "Simone, mi ami tu (agapâs-me)" con questo amore totale e incondizionato (cfr Giovanni 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’apostolo avrebbe certamente detto: "Ti amo (agapô-se) incondizionatamente". Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: "Signore, ti voglio bene (filô-se)", cioè "ti amo del mio povero amore umano". Il Cristo insiste: "Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?". E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: "Kyrie, filô-se", "Signore, ti voglio bene come so voler bene".
Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: "Fileîs-me?", "mi vuoi bene?". Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: "Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)". Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! È proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: "Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: ‘Seguimi’" (Giovanni 21,19).
Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta. È stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, "pietra" della Chiesa, perché costantemente aperto all’azione dello Spirito di Gesù. Pietro stesso si qualificherà come "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi" (1 Pietro 5,1).
Quando scriverà queste parole sarà ormai anziano, avviato verso la conclusione della sua vita che sigillerà con il martirio. Sarà in grado, allora, di descrivere la gioia vera e di indicare dove essa può essere attinta: la sorgente è Cristo creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità. Perciò scriverà ai cristiani della sua comunità, e lo dice anche a noi: "Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime" (1 Pietro 1,8-9).
Sta di fatto che il vescovo di Roma, sicuro di essere ascoltato, richiama all'ordine i ribelli e li ammonisce, ricordando loro la responsabilità che hanno di fronte a Cristo: "Ma se qualcuno non obbedisce a ciò che per nostro tramite Egli [Cristo] dice, sappiamo che si vedrà implicato in una colpa e in un pericolo non indifferente. Noi però saremo innocenti di questo peccato". Il richiamo all'obbedienza da parte del Papa è significativo al pari delle minacce spirituali riservate a chi disobbedisce. Siamo di fronte, indubbiamente, ad un gesto di correzione fraterna da parte di chi deve confermare i suoi fratelli nella fede, ma anche alla consapevolezza della propria responsabilità sulla Chiesa intera. Da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, IV, 23, 11) sappiamo che tale avvertimento pontificio venne accolto, ascoltato e messo in pratica, con ciò confermando 1'autorità normativa e disciplinare di chi aveva pronunciato tale monito. Che importanza ha per noi questo documento? Enorme. Se da un lato ci dimostra che sin dalle origini e persino in comunità fondate direttamente dagli apostoli (Corinto) esistevano dissidenti e teste calde, d'altro lato questa epistola riveste il valore di prova che alla Chiesa di Roma e al suo Vescovo veniva riconosciuto il Primato sia giuridico che di governo rispetto alle altre chiese." (cfr, Il Timone di Settembre ’99, Gianfranco Nicotra)
Ma esistono molte altre prove storiche che rispondo alla classica domanda:
Una tradizione, assai antica, ha creduto che Pietro sia andato a Roma, dove avrebbe subito il martirio sotto la persecuzione di Nerone. Per secoli questa fu la fede della Chiesa. Solo nel XIV secolo, Marsilio da Padova avanzò dubbi sul fatto che Pietro fosse stato vescovo di Roma. In seguito, larga parte del protestantesimo tentò di mettere in dubbio anche la venuta di Pietro a Roma con evidenti finalità polemiche verso la chiesa cattolica ed il vescovo di Roma.
Sebbene il Nuovo Testamento non parli chiaramente del martirio romano di Pietro, nel saluto finale della sua prima epistola Pietro dice: "La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta" (1 Pietro 5, 13). Poiché l'antica Babilonia giaceva distrutta da molti secoli e in Mesopotamia non esisteva una comunità cristiana ma solo di una colonia giudaica, Babilonia deve essere per forza il nome
simbolico di Roma, nome peraltro assai amato nell'apocalittica giudaica e cristiana (Apocalisse 17-18-19).
Clemente Romano (ca. 96 d.C.) per primo parla della morte di Pietro e di Paolo, dicendo: "Per l'invidia e gelosia furono perseguitate le più grandi e più giuste colonne le quali combatterono sino alla morte. Poniamoci dinanzi agli occhi i buoni apostoli. Pietro che per l'ingiusta invidia soffrì non uno, ma numerosi tormenti nella grande Babilonia, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Fu per effetto di gelosia e discordia che Paolo mostrò come si consegua il premio della pazienza …." (Clemente, 1 Corinzi V, 2-5)
Ignazio, vescovo di Antiochia, verso il 110 d.C. durante il suo viaggio verso Roma per subirvi il martirio, pur non ricordando il martirio dell'apostolo, scrive alla chiesa ivi esistente di non voler impartire loro "degli ordini come Pietro e Paolo" poiché essi "erano liberi, mentre io sono schiavo" (Ignazio, Ai Romani 4, 3). Siccome Pietro non scrisse alcuna lettera ai Romani, si deve dedurre che egli avesse loro impartito dei comandi di presenza, cioè a voce, come solevano fare gli Apostoli.
Dionigi, vescovo di Corinto, verso il 170 d.C., in una lettera parzialmente conservata da Eusebio, attribuisce a Pietro e Paolo la fondazione della chiesa di Corinto e la loro predicazione simultanea in Italia dove assieme subirono il martirio. "Con la vostra ammonizione voi (Romani) avete congiunto Roma e Corinto in due fondazioni che dobbiamo a Pietro e Paolo. Poiché ambedue, venuti nella nostra Corinto hanno piantato e istruito noi, allo stesso modo poi, andati in Italia, insieme vi insegnarono e resero testimonianza (con la loro morte) al medesimo tempo" (Dionigi in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 25).
Clemente Alessandrino (150-215) ricorda che, "quando Pietro ebbe predicato pubblicamente la Parola a Roma e dichiarato il Vangelo nello Spirito, molti degli ascoltatori chiesero a Marco, che lo aveva seguito da lungo tempo e ricordava i suoi detti, di metterli per iscritto." (Eusebio, Storia Ecclesiastica VI, 14).
Tertulliano (160-240) ripete che Pietro fu crocifisso a Roma durante la persecuzione neroniana, dopo aver ordinato Clemente, il futuro vescovo romano (Scorpiace XV; Sulla prescrizione degli eretici XXXII); lo stesso Tertulliano ricorda anche il martirio comune di Pietro e Paolo a Roma, sottolineando come Pietro avesse sofferto lo stesso martirio di Gesù e come Paolo fosse stato ucciso come Giovanni Battista (Sulla prescrizione degli eretici XXXVI).
Ireneo, vescovo di Lione (140-202), ricorda che "Matteo... compone il suo Vangelo mentre Pietro e Paolo predicavano e fondavano la chiesa …" e parla "… della chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo …. con questa chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve essere necessariamente d'accordo ogni chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte ….la chiesa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la tradizione che viene dagli apostoli …" (Contro le eresie III, 1-3)
Eusebio di Cesarea (260-337) ricorda come, sotto il regno di Claudio, la Provvidenza condusse Pietro a Roma per porre fine al potere di Simon Mago (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 14). Egli inoltre ricorda come, a Roma, sotto l'impero di Nerone, Paolo venne decapitato e Pietro crocifisso (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 25).
Girolamo (347-420) scrive che "Simon Pietro venne a Roma per debellare Simon Mago …occupò a Roma la cattedra episcopale per 25 anni, fino all'ultimo anno di Nerone …..fu crocifisso con il capo all'ingiù e i piedi rivolti verso l'alto, dichiarandosi indegno di venir crocifisso come il suo Signore" (Gli uomini illustri I).
Circa il martirio di Pietro e Paolo a Roma, le testimonianze materiali come quelle letterarie sono numerose. Clemente Romano terzo Papa, nella sua lettera ai Corinzi del 96, porta l’esempio di pazienza degli Apostoli che furono catturati a causa di invidie gelosie e discordie, quindi processati e uccisi "insieme ad una folla di eletti". Pietro, secondo lo storico Eusebio sulla base di uno scritto di Origene, venne crocifisso come gli altri cristiani nel circo di Caligola sulle pendici del colle Vaticano tra il 64 e il 67, crocifisso a testa in giù e sepolto in una tomba terragna nella necropoli esistente lungo il circo. Paolo venne decapitato nella stessa persecuzione sulla via Ostiense e sepolto nella necropoli sulla quale nel 386 venne costruita la basilica costantiniana.
Sulla tomba dei due apostoli sorse subito un piccolo monumento, una memoria, di cui parla il prete Gaio nel II secolo: "In Vaticano e sulla Via Ostiense, ti mostrerò i trofei (tombe gloriose) di coloro che hanno fondato questa Chiesa". Un discorso che è criterio guida per individuare la linea della retta tradizione mentre esprime la coscienza che la Chiesa di Roma si fonda sulla testimonianza e sul martirio dei due apostoli.
Continua.... abbiamo preferito interrompere qui il testo per non appesantire ulteriormente il caricamento della pagina, potete scaricarlo per intero cliccando sopra l'apposito pulsante ad inizio pagina, o sulla scritta Continua.